Primo piano

L’affaire Mattei. Di verità si può anche morire?/9

 

di Otello Lupacchini*

Nelle memorie raccolte da Guerrino Citton, si rinviene la versione di Graziano Verzotto sul secondo e ultimo viaggio in Sicilia, del presidente dell’Eni: «Mattei dovette promettere che si sarebbe recato a Gagliano per tranquillizzare personalmente gli abitanti del luogo». A Gagliano Castelferrato, paese della provincia di Enna, il gruppo «del cane a sei zampe» aveva scoperto un giacimento, poi rivelatosi deludente, che sul momento aveva aperto prospettive occupazionali e acceso grandi speranze tra gli abitanti del luogo. A un certo punto s’era sparsa la voce che l’Eni non volesse più investire in quel ritrovamento e l’allora presidente della Regione siciliana, Giuseppe D’Angelo, aveva chiamato Mattei invitandolo con insistenza a ritornare nell’Isola, dove era già stato in visita poco tempo prima, per calmare la popolazione in rivolta. In realtà non c’era alcuna rivolta a Gagliano Castelferrato, la cui cittadinanza riservò anzi a Mattei un’accoglienza calorosissima e al suo discorso improvvisato da un balcone applausi scroscianti. Se è vero che l’aereo di Mattei fu sabotato, e l’inchiesta di Pavia condotta dal pubblico ministero Vincenzo Calia ha cancellato ogni dubbio al riguardo, l’invito pressante a recarsi nell’ennese fu l’espediente per attrarlo nella trappola che lo avrebbe condotto alla morte. Proprio in quel periodo, Mattei aveva ricevuto varie minacce di morte, tra cui quella dell’Organizzazione dell’armata segreta francese, che osteggiava l’indipendenza dell’Algeria, e gli uomini della sicurezza nonché i suoi stessi familiari gli avevano suggerito di non affrontare quel viaggio in Sicilia. In ogni caso, «nessuno sapeva della venuta di Mattei a Gela», il 26 ottobre 1962, «dato che il presidente dell’Eni, per ovvi motivi di sicurezza, non diceva nulla a nessuno circa i suoi spostamenti»; non solo: sarebbe stato lo stesso Mattei a volere che l’aereo non fosse lasciato incustodito nella pista di Gela, ma fosse portato a Catania.

Nelle memorie raccolte daGuerrino Citton, si rinviene anche il punto di vista di Graziano Verzotto sull’assunzione del bossGiuseppe Di Cristina alla Sochimisi, che faceva capo all’Ente minerario siciliano. Unico responsabile sarebbe stato l’ex repubblicano Aristide Gunnella, che sedeva nel consiglio d’amministrazione della società in questione; egli sarebbe stato sollecitato da «una delegazione democristiana di Caltanissetta» all’assunzione del capomafia di Riesi, ma di aver opposto un deciso rifiuto; difficile da capire come si possa  imporre un’assunzione al consiglio, avendo contro il presidente dell’Ente, ma il via libera, secondo Verzotto, sarebbe venuto proprio da Gunnella; in ogni caso, successivamente, avrebbe ricevuto una visita di Giuseppe Di Cristina, andato a trovarlo per chiedergli una promozione; l’occasione era stato propizio per discutere con lui, in quella circostanza, della scomparsa di Mauro De Mauro, il quale aveva svolto un’inchiesta per conto del regista Francesco Rosi sui due giorni trascorsi da Mattei in Sicilia prima di morire. «Ricordo che gli chiesi un parere sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro. Il bossnon ebbe esitazioni e mi disse che De Mauro, con i suoi articoli sul traffico della droga ed il contrabbando di sigarette, era andato oltre, mandando a monte più di un’operazione. E questo la mafia non l’aveva tollerato». Graziano Verzotto era stato tra quelli che De Mauro aveva incontrato nel corso della sua inchiesta: era stato proprio Verzotto a suggerirgli di incontrare l’avvocato Vito Guarrasi, eminenza grigia del potere in Sicilia e lontano cugino di Enrico Cuccia, il quale aveva lavorato con Eugenio Cefis al progetto del petrolchimico di Gela, era stato consigliere economico di Milazzo ed era stato nominato da Mattei suo consulente.

La storia, almeno quella giudiziaria, è nota: nella notte fra il primo e il due novembre del 1975, all’idroscalo di Ostia dove, nell’estate precedente, erano state girate alcune delle scene più allegre e sensuali del film Il fiore delle Mille e una notte, spiazzo polveroso trasformato in mitica natura vegetale, moriva assassinato Pier Paolo Pasolini. La verità sull’omicidio sembrò da subito essere a portata di mano: ad assassinarlo, si disse, era stato un ragazzo diciassettenne, Pino Pelosi, il quale, dopo averlo atterrato a colpi di bastone e con un calcio allo scroto, impossessatosi della sua automobile, era passato più volte sul suo corpo: condannato, in primo grado, dal Tribunale per i minorenni di Roma, presieduto da Alfredo Carlo Moro, per omicidio, commesso non da solo, ma «in concorso con ignoti», la Corte d’Appello, con sentenza del dicembre del 1976 – confermata in Cassazione nell’aprile del 1979 –, accogliendo la richiesta del procuratore generale, il dott. Guido Guasco, lo stesso magistrato che aveva condotto l’istruttoria dopo che il suo ufficio aveva avocato l’affaire, sottraendola alla procura della Repubblica presso il tribunale, ne ribadì l’affermazione di responsabilità, affermando, tuttavia, proprio con riguardo agli indizi dell’eventuale concorso di ignoti, « che questi elementi possano spiegarsi con l’ipotesi della partecipazione di più persone è indubbio, che ne siano indizi sicuri e incontrovertibili è da negare ».

*Giusfilosofo

 

9/Segue

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