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L’analisi documentale affrontata dalla storica e ricercatrice e trasformata in un libro da Frida Bertolini Le memorie della Shoah

Le memorie della Shoah, i falsi testimoni, la coscienza collettiva, l’onestà della ricerca storica. Sono questi i temi che con audacia e analisi documentale affronta la storica e ricercatrice Frida Bertolini che ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’Università di Bologna in co-tutela con l’Università Paris X-Nanterre – nel suo lavoro ‘La Shoah e le identità rubate’ (edizioni Biblioteca Clued) sul caso di tre falsi testimoni che hanno scritto e parlato degli orrori dei lager in cui non erano mai stati. “Queste persone- spiega l’autrice alla Dire- si sono fabbricati una falsa identità per reclamare, nei termini più alti delle vittime della Shoah, un’identità di vittima e si contano sulle dita di una mano a fronte di un evento che ha fatto milioni di morti”.

I tre falsi testimoni dell’olocausto

Il libro tratta infatti del caso scomodo di tre falsi testimoni dell’Olocausto: due bambini che da adulti si sono raccontati come sopravvissuti e un giovane leader alla ricerca di un’immagine che riscuotesse consenso politico che hanno messo nero su bianco i loro ricordi, trasferendo il loro vissuto, falso, in una memoria collettiva che sull’orrore della Shoah è diventata, forse anche grazie a narrazioni così cariche di emozione, sempre più consapevole e attenta. Come se la non verità avesse comunque contribuito alla puntuale percezione degli avvenimenti nei posteri con il rischio però, ben evidenziato nel testo, che più ci si allontana da quegli anni e più le false testimonianze possano danneggiare la ricostruzione storica.
Binjamin Wilkomirski con Frantumi, Enric Marco che nella Spagna post Franco con il suo racconto confessione al periodico Por Favor racconta d’esser scampato al campo di Flossenborg e poi Misha Levy Defonseca con A memoire of the Holocaust Years, che è l’unica che confessa di essersi inventata tutto, sono i tre casi paradigmatici raccontati.

Frida Bertolini ricostruisce il profilo biografico dei tre protagonisti: il primo un bambino nato in Svizzera, abbandonato e adottato che nella sua opera aveva trasferito il suo vero sé traumatizzato restituendo un racconto falso ma credibile. Marco, “simbolo dei repubblicani spagnoli deportati” che inventa il suo passato glorioso e la piccola Defonseca che, come il protagonista di Frantumi, per sfuggire al dolore delle angherie subite nella famiglia adottiva inventa e trasferisce il suo dolore nel dramma della Shoah. Racconti ben compenetrati con i documenti reali dell’orrore e di difficile analisi come tutte le narrazioni dei pochissimi orfani davvero scampati, quasi tutti senza più nome, con identità annientate.
Chi può davvero smentirne il racconto e la veridicità aldilà delle contraddizioni di cronaca? I ricordi dei falsi testimoni presi in esame, intrisi di un trauma esistenziale, questo si, assolutamente autentico, non erano infatti autenticamente legati alla storia della Shoah. Una volta smascherati è stato difficile però, questa l’analisi che esplora la ricercatrice con coraggio, considerarli dei semplici impostori, proprio alla luce della narrazione e della condivisione collettiva di quel dramma che non veniva intaccato nel suo valore storico e simbolico da quelle false narrazioni. “Contrabbandieri di verità” li definì l’autrice nella prima edizione cercando sia di studiarne il valore apportato a corroborare di anima e consapevolezza la memoria collettiva, sia però di arginare il grande rischio che il negazionismo si avvalesse di questi falsi storici, che tali sono senza dubbio, per cancellare la verità e il valore del testimone: figura che nasce proprio nel processo al nazismo a Norimberga impostato tutto sulla forza dei documenti, e che a Gerusalemme diventa anche un appello all’emozione del ricordo. Può la verosomiglianza, pur non essendo verità, assolverne lo stesso ruolo pedagogico e moralizzante e a che prezzo?

La pseudomemoria: rischi e valore

La pseudomemoria nel caso dell’Olocausto sembra non inficiarne il dolore, eppure ne rappresenta un’insidia per chi ha provato a negarne la reale verità storica. Walter Barberis nell’introduzione parla infatti di “difficile cammino interpretativo per mettere alla prova la possibilità del metodo storico”. In ‘Critica della storia e critica della testimonianza’ e ‘Riflessioni di uno storico sulle false notizie della guerra’ March Bloch affronta proprio l’impatto, non necessariamente deleterio, che la falsa testimonianza ha sulla coscienza collettiva e questo è tanto più vero per un evento così indicibile e quasi ineffabile qual è stato l’Olocausto. Annette Wieviorka nell’Era del testimone ne mette in limite il pericolo.

Come quello che l’autrice, Frida Bertolini, nella postfazione vuole scongiurare: che i bambini con i loro ricordi agganciati al vissuto emotivo interiore non siano considerati testimoni attendibili. Lo fa citando il caso emblematico della False Memory Syndrome Foundation che su questo fondamento ha coperto abusi sessuali subiti dai minori. Scrive per questo la storica: “Chi inventa – come nel caso di questi testimoni orfani che avevano un vissuto doloroso alla base del loro racconto – non mente perché riferisce una verità storica inconfutabile”.

Bertolini ribadisce, commentando il suo lavoro: “I falsi ricordi in senso stretto invece non si possono indurre e lo dimostra Yale con uno studio in cui esponendo dei volontari a immagini e documenti dolorosi riesce a riprodurre delle reazioni di dolore ma non dei falsi ricordi”. Parlarne anche nella denuncia del falso salva la storia, la memoria e quasi per paradosso anche la cronaca di quel che è stato e la stessa verità, pur in quei racconti ‘falsi’ e ‘visti’ con gli occhi interiori di un bambino testimone di fronte al peggiore orrore, quale che sia. E se non è accaduto davvero al piccolo Binjamin Wilkomirski, sarà stato senza dubbio qualcun altro, al posto suo, ad averlo vissuto davvero. Solo che è morto ad Auschwitz e non può raccontarlo più.

Dire

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