Economia e Lavoro

Confindustria rinvia la ripresa e contabilizza un crollo delle produzioni dell’11% nel 2020 : “Forte rimbalzo del Pil solo nel terzo trimestre”

Il recupero del Pil italiano è “posticipato” e “un forte rimbalzo è atteso solo dal terzo trimestre 2021, sopra le stime iniziali se la vaccinazione sarà efficace e rapida” e ripartiranno i consumi. E’ la previsione del Centro studi di Confindustria contenuta nella congiuntura Flash. “Un allentamento delle restrizioni anti-pandemia – osserva il Csc – rilancerebbe anche la fiducia e quindi la domanda, liberando per i consumi le risorse accumulate in questi mesi col risparmio ‘forzato'”. In ogni caso “la flessione stimata per fine 2020 e la debolezza attuale fanno già rivedere al ribasso la crescita complessiva attesa per quest’anno”. Confindustria sottolinea quindi che l’impatto della crisi sanitaria sui settori industriali in Italia è stato “molto disomogeneo” e “i settori manifatturieri più penalizzati, con crolli di attività oltre il 20%, restano quelli legati alla filiera della moda (tessile, abbigliamento, pelle) e dell’automotive”. Poi su quanto accaduto lo scorso anno: La pandemia ha inferto un duro colpo all’industria italiana nel 2020, a causa soprattutto della caduta di domanda, interna ed estera, conseguente alle misure di contenimento introdotte in Italia e negli altri paesi colpiti dal virus. Nei primi undici mesi del 2020 la produzione manifatturiera è diminuita di circa il 13% rispetto al 2019. E’ la fotografia scattata dal Centro Studi di Confindustria nella Congiuntura Flash.

La caduta della produzione è stata acquisita quasi interamente tra febbraio e aprile, quando la produzione aveva raggiunto, in media, valori inferiori di oltre il 50% rispetto a quelli pre-Covid. Il recupero nei mesi estivi (+29%) ha contribuito in modo determinante a limitare le perdite nell’anno. Il marginale arretramento atteso nell’ultimo trimestre, per il riacutizzarsi della crisi sanitaria, inciderà poco sulla media del 2020.

Secondo il Csc, l’impatto della crisi sanitaria sui settori industriali in Italia è stato molto disomogeneo. Infatti, da un lato le produzioni di beni essenziali sono state esentate dal lockdown, dall’altro la domanda di beni di consumo durevoli è più facilmente rinviabile. I divari tra settori sono stati molto ampi nella prima fase dei contagi, passando dal -92,8% dei prodotti in pelle al -5,5% del farmaceutico (produzione di aprile 2020 rispetto a gennaio). Nel complesso del 2020, dopo il forte recupero nel terzo trimestre, i settori manifatturieri più penalizzati, con crolli di attività oltre il -20%, restano quelli legati alla filiera della moda (tessile, abbigliamento, pelle) e dell’automotive, quest’ultimo già in difficoltà prima della pandemia. Viceversa, i settori dell’alimentarebevande e della farmaceutica hanno limitato entro il -5% la perdita nel 2020 rispetto all’anno precedente.

Secondo una recente indagine Istat, a fine 2020, il 32,4% delle imprese ha segnalato rischi operativi e di sostenibilità della propria attività e il 37,5% ha richiesto il sostegno pubblico per liquidità e credito, ottenendolo nell’80% dei casi. Delle imprese intervistate circa il 70% è pienamente attivo, mentre più del 20% lo è solo parzialmente; il 7% ha dichiarato di essere chiuso (e un quinto di queste non prevede una riapertura). Si tratta per lo più di micro-imprese, concentrate nel settore dei servizi non commerciali e localizzate prevalentemente nel Mezzogiorno. Ben 7 imprese su 10 hanno dichiarato una riduzione del fatturato rispetto all’anno prima, nella metà dei casi tra il -10% e il -50%.

Nonostante la crisi, il 25,8% delle imprese è orientata ad adottare strategie di espansione produttiva. Tra queste rientrano quelle che l’Istat definisce “proattive”: sono imprese di dimensione maggiore, con più elevati livelli di produttività, formazione, investimenti per addetto. Sono state in parte avvantaggiate dall’operare in comparti più dinamici (a maggiore intensità tecnologica/di conoscenza) e colpiti meno duramente dalla pandemia. Sono più numerose in settori quali le forniture energetiche e idriche e, appunto, in attività che hanno limitato i danni nell’emergenza sanitaria, quali chimica, farmaceutica, elettronica, bevande. Indebitamento eccessivo in tutti i settori. Nel 2020 i prestiti “emergenziali” hanno arginato la crisi di liquidità delle imprese dovuta al calo dei fatturati, tenendo in piedi l’attività corrente. Tuttavia, sommandosi al crollo del cash flow, hanno fatto crescere troppo il peso del debito rispetto alla situazione pre-Covid, quando per ripagarlo servivano 2,2 anni di flussi di cassa nell’industria e 1,9 nei servizi. Nell’industria la situazione debitoria è peggiorata in tutti i settori, anche nell’alimentare e chimico-farmaceutico dove il flusso di cassa si è ridotto meno. All’estremo opposto, in settori come automotive, metallurgia e macchinari, con flussi di cassa negativi, non è neanche possibile stimare il numero di anni che servirebbero a estinguere il debito. Anche nei servizi il peso del debito è balzato, a 11,2 anni di cash flow. Per il commercio e l’alloggio-ristorazione i flussi di cassa sono caduti in negativo. Una situazione che rischia di diventare insostenibile e rende arduo realizzare investimenti ai ritmi pre-crisi: se le risorse interne venissero impiegate solo per rimborsare il debito, l’impresa non avrebbe i mezzi per nuovi progetti. Nel 2021 si prevede che la situazione resti tesa, anche se meno critica: il fatturato dovrebbe risalire in parte e il cash flow tornerebbe positivo quasi ovunque. Tuttavia, in tutti i settori il debito resterebbe pesante: nel manifatturiero servirebbero 5,4 anni di cash flow, più del doppio del 2019. Nei servizi quasi 4 anni. E questo valore medio non rende appieno le difficoltà di comparti come alloggio-ristorazione e commercio, dove l’onere per interessi resterebbe oltre il 10% delle risorse interne.

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