Politica

Atlante della crisi di governo, Draghi sarà attento al tritacarne delle manovre di Palazzo

Questa crisi di governo richiede molti aggettivi per essere definita. E ognuno di essi rischia di essere vero e al tempo stesso falso, come in un gioco pirandelliano degli specchi e dei doppi.

La crisi è stata definita pazza, inopportuna, suicida, scriteriata, irresponsabile. Definita così ovviamente da coloro che l’hanno subita. Oppure anche: necessaria, chiarificatrice, salutare, è per coloro che l’hanno provocata.

Cominciamo allora a sbrogliare questa matassa di aggettivi partendo dal punto conclusivo: l’incarico a Draghi. Per guidare un governo istituzionale, un governo tecnico, un governo del Presidente, tutte formule che si equivalgono. A questo governo il presidente della Repubblica Mattarella ha disegnato il perimetro e l’orizzonte: è un governo che non si riconosce e si identifica in alcuna formula politica precisa; quindi non sarà un governo di sinistra, di centrosinistra, di destra o di centrodestra.

Questo il primo punto. L’altro punto, che ne definisce il carattere, riguarda i soggetti che dovrebbero appoggiarlo: il parlamento nella sua interezza, non questa o quella parte politica. Questo perlomeno è il discorso di partenza. Questo l’accorato appello del presidente Mattarella rivolto a tutto l’arco delle forze parlamentari, nessuna esclusa, perché aiutino la missione di questo governo per affrontare le quattro emergenze ( reminiscenza spadoliniana quando fece il governo nel 1982). 

Un governo del presidente, questo ce lo possono spiegare i costituzionalisti, è di fatto svincolato da un rapporto stretto con i partiti. Chi lo guida, soprattutto se si chiama Mario Draghi, in teoria potrebbe scegliere i ministri che vuole, beninteso di alto profilo, come ha raccomandato Mattarella, stilare un programma, per grandi linee già definito dalla situazione: pandemia, imprese ferme o in crisi, lavoro che manca, licenziamenti che rischiano di scattare appena finisce il blocco, rilancio degli investimenti, un piano per l’occupazione, un piano per la vaccinazione che non porti gli italiani a vaccinarsi a Natale, mentre intanto la gente continua a morire; e soprattutto, un piano per i giovani, per assicurare loro un futuro; su questa idea si soffermò con passione Mario Draghi nel suo intervento al Meeting di Rimini dell’agosto scorso.

E tuttavia Draghi oggi nella sua dichiarazione al Quirinale con cui annuncia di aver accettato l’incarico con riserva ( formula di rito), ha significativamente reso omaggio al parlamento come luogo della rappresentanza della sovranità popolare, e ha annunciato che consulterà i partiti. 

Qui va chiarito un punto: dato il tipo di governo che è chiamato a presiedere, Draghi certamente non si farà impaniare nella liturgia di consultazioni defatiganti, estenuanti, dove impera il gioco delle tre carte, dei doppi tavoli, della babelica confusione delle lingue. Si suppone, e a questo punto si spera, che egli si limiti ad ascoltare i vari punti di vista dei partiti, accenni alle cose che ha in mente di fare e a chiedere se intendano appoggiarlo. Dopodiché, data le necessità di fare presto, anzi prestissimo, perché tra Conte da una parte e Renzi dall’altra si è sprecato oltre un mese, Draghi dovrebbe essere in grado di presentarsi da Mattarella,già i primi giorni della prossima settimana, sciogliere la riserva e presentare la lista dei ministri, e poi andare in parlamento per chiedere la fiducia in nome di un salvataggio del Paese. Chi avrà a quel punto il coraggio di votargli contro? Chi si metterà di traverso respingendo l’appello del Presidente della Repubblica? Ci sarà sempre qualcuno che remerà contro.

Già l’incarico a Draghi sta creando, come avviene nella chimica, rischi di reazioni a catena all’interno dei partiti, rimasti spiazzati e confusi dalla evoluzione della crisi. Grande è la responsabilità del gruppo parlamentare di maggioranza relativa, i 5 Stelle: orfano di Conte, per il quale ha scelto una linea di arroccamento , ora si trova nella situazione o di assecondare il tentativo di Draghi o di sbarrargli la strada sapendo però che lo sbocco di questa ultima scelta sarebbe un suicidio collettivo: le urne inevitabili, la falcidia elettorale, la probabile condanna alla irrilevanza politica. L’arrivo di Draghi salvatore della patria, da una parte, è un caso esemplare di eterogenesi dei fini: Prodi ha detto ex malo bonum, gli inglesi parlerebbero di serendipity: uno persegue un obiettivo e invece ne succede un altro.

Dall’altra parte, l’incarico a Draghi può essere letto anche come una sconfitta della politica. Sventurato il Paese che ha bisogno di eroi, diceva il Galileo di Bertolt Brecht. Si potrebbe analogamente dire: sventurato il Paese che ha bisogno ogni tanto di un salvatore della patria. Si ha un bell’inveire contro Renzi, i suoi modi arroganti, rodomonteschi, da nipotino di Machiavelli. 

Ma anche i più fieri anti renziani dovrebbero ammettere che il fiorentino ha fatto la sua partita politica con grande abilità; come in una società per azioni, ha fatto valere il suo due per cento contro il 49 degli altri due soci. Legittimamente si può intestare il successo di questa partita. A chi lo accusa di aver puntato alle poltrone, egli può ben rispondere che non era questo l’obiettivo, tanto è vero che vi ha rinunciato. 

In realtà Renzi ha vinto su tutta la linea, e gli altri partiti – Cinque stelle e Pd – non hanno saputo, potuto rintuzzarne le manovre e rovesciarne i disegni. Si può capire che il movimento Cinque stelle abbia voluto morire per Danzica, alias Conte: con ciò tradendo anche una vistosa carenza di personale politico. La Dc, si parva licet, quando Fanfani veniva disarcionato faceva scendere in campo Moro, Forlani, Rumor, Goria, De Mita ece cc. I Cinque stelle, quando hanno visto che Conte era il tappo che non consentiva di bere la bottiglia, hanno insistito sul premier uscente, proclamando una grottesca alternativa: o Conte o elezioni, quando proprio i grillini vedevano e vedono le urne come l’abisso. 

Ma se si possono capire i Cinque stelle, non si capisce la strategia adottata dal Pd, e dall’invincibile stratega Goffredo Bettini ( come nascono come fuochi fatui certe effimere glorie) deciso anch’esso a morire per Conte, e a insistere sulla stessa falso dilemma: o Conte o il voto, pur sapendo che il voto era una chimera impraticabile, come ha spiegato ieri Mattarella dando una lezione di costituzione, di realismo e di saggezza sul perché le elezioni non si possono fare finché dura la pandemia. 

Agitando quindi una pistola scarica, Pd e Cinque stelle hanno cercato di intimorire Renzi minacciando il voto dal quale, era il sottinteso, egli sarebbe uscito forse annullato. Ma Renzi non ci è cascato e ha disegnato come un ragno la sua tela, in cui ci sono cascati tutti. Prima ha fatto dimettere Conte, annunciando che non avrebbe votato la relazione di Bonafede sulla Giustizia in Senato. Dimessosi Conte e aperte le consultazioni, Renzi ha indicato l’opportunità di un esploratore. Mattarella ha nominato Fico. Poi il fiorentino ha imposto un metodo: prima parliamo delle cose da fare, i nomi vengono dopo. 

E gli altri partiti ci sono cascati, pur fiutando che c’era puzza di bruciato, ma nessuno ha opposto l’obiezione: le cose da fare vanno insieme ai nomi di chi le debbono attuare. E’ stato sempre così nella politica italiana. Ma mentre parlavano di programma, Renzi faceva filtrare e lo diceva anche esplicitamente: che bello sarebbe un governo con Draghi e Cartabia!. E alla fine Draghi è arrivato. Renzi si può criticare per tante cose, ma non è uno sprovveduto e ha fatto politica. 

Gli altri l’hanno subita. Specialmente il Pd, su cui incombe il sospetto di aver mandato il leader d’Italia Viva in avanscoperta. Ma Renzi strada facendo si è gasato, il personaggio è un po’ tolemaico, e si è appassionato alla parte e ha puntato al bersaglio grosso: far fuori Conte, togliergli la gestione dei 209 miliardi del Recovery Fund, per il quale il premier uscente pare avesse già predisposto un esercito di consulenti, commissari, esperti. Si aggiunga che Renzi a un certo punto ha creduto di vedere dietro Conte l’ombra del suo arcinemico D’Alema, che egli assunse a simbolo della rottamazione quando diventò segretario del Pd; e l’ex deputato di Gallipoli lo ripagò contribuendo in modo decisivo a fargli perdere il referendum sulle riforme.

Il sospetto di una intelligenza tra Conte e D’Alema, per non dire di una corrispondenza d’amorosi sensi, è stato alimentato anche da una frase inequivoca di D’Alema: Non si può mandare a casa l’uomo più popolare del Paese per far piacere all’uomo più impopolare ( Renzi, naturalmente).

Ora quest’uomo impopolare si gode la vittoria, forse capirà che non deve strafare; di fatto è stato il san Giovanni Battista di Draghi. E si è subito messo sotto l’ombrello del presidente della Repubblica: ci atteniamo a quello che decide Mattarella. ( per la cronaca l’attuale inquilino del Colle fu eletto per decisione di Renzi, e Berlusconi fu messo davanti al fatto compiuto). Si apre ora una fase interessante: forse vedremo ministri di ‘’altro profilo’’ davanti ai quali molti del governo uscente sembrerebbero al massimo dei segretari o degli assistenti. Forse cadranno teste accellenti, commissari discussi come Arcuri.

Grande è anche il disorientamento della gente che vede pericoli nell’arrivo di un non politico, di un tecnico come Draghi. Ma l’ex presidente della Bce non è Monti, non è un tecnocrate arido e senza sensibilità sociale: se si rileggono gli ultimi discorsi, si coglie una visione, un progetto, idee chiare, espresse con garbo e con competenza. Dell’autorevolezza poi cosa dire? Che Draghi è l’uomo che ha mostrato cosa vale, c’è chi dice che ha salvato l’Europa, ha salvato l’euro. 

Possibile che non riesca a salvare anche l’Italia? O varrà il motto nemo propheta in patria? Da italiani, c’è da sperare che quest’ultima evenienza non accada. 

Ma c’è una domanda che ogni italiano dovrebbe porsi, serenamente: la irripetibile montagna di miliardi del Recovery Fund che potrebbe davvero servire a raddrizzare un Paese azzoppato, ferito e stremato, a risanare il Mezzogiorno e dare una prospettiva di futuro ai giovani, deve essere gestita al meglio.

Gli italiani si sentono meglio garantiti se li gestisce un personaggio come Conte con la politica dei sussidi, delle regalie a pioggia, o se le gestisce un personaggio come Draghi, con la sua competenza, esperienza e autorevolezza? 

La risposta a questa domanda servirebbe a chiarire tante cose. Anche perché questa crisi è nata. Forse con un anno di ritardo.

PrimaPaginanews 

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