Politica

Considerazioni sul Pd: dall’abbraccio con la Cgil ai nuovi diritti, 20 anni di errori dem

 

di Natale Forlani

Dopo lo scioglimento del Partito Comunista Italiano, nel 1991 (nella foto la svolta di Occhetto alla Bolognina) non sono bastate tre fasi costituenti, accompagnate da altrettante scissioni, per dare al principale partito della sinistra italiana un’adeguata coesione di intenti. L’adesione alla grande famiglia dei partiti socialisti europei non è stata accompagnata dalla condivisione delle premesse culturali fondamentali (il gradualismo riformista, l’esigenza di generare la ricchezza come condizione per un’equa distribuzione, con il conseguente riconoscimento della funzione del mercato e della libertà di impresa), che hanno consentito ai partiti socialdemocratici di diventare i grandi protagonisti nelle formazione delle economie sociali di mercato che rappresentano tuttora il connotato distintivo del continente europeo. Il balzo verso la formazione di un partito socialdemocratico è risultato difficile per le caratteristiche ideologiche del disciolto Pci, l’ultimo sopravvissuto nel contesto europeo all’epoca della caduta del muro di Berlino. Le vicende di Tangentopoli e la dissoluzione del Psi hanno consegnato l’eredità della storia e della cultura della sinistra italiana ai due soggetti che diventeranno i principali protagonisti dell’evoluzione del Partito democratico della sinistra (Pds) negli anni 90: la Cgil e la corrente di Magistratura democratica, accomunate dal proposito di imporre con ogni mezzo una politica antagonistica nei rapporti tra il capitale e il lavoro e radicalmente alternativa al blocco delle forze politiche del nuovo centrodestra a trazione berlusconiana. In parallelo, le varie riedizioni del principale partito della sinistra hanno sviluppato una straordinaria capacità di attrazione per le burocrazie e le tecnocrazie pubbliche, gli intellettuali e gli opinion leader dei mass media, con una debole concorrenza da parte degli oppositori politici. E di veicolare carriere, nomine negli apparati pubblici e nelle aziende pubbliche nazionali e locali, in grado di condizionare i comportamenti delle istituzioni anche nel corso delle congiunture sfavorevoli. Gli anni 90 rappresentano una tappa importante dell’evoluzione delle socialdemocrazie europee, impegnate a costruire una risposta originale alla crisi del Welfare state, alternativa alle politiche thatcheriane e reaganiane che si erano affermate su entrambe le sponde dell’Atlantico. Grazie al contributo di un gruppo nutrito di intellettuali e di politici, in particolare Jacques Delors, Anthony Giddens, Tony Blair e Gerhard Schröder, prenderanno corpo il nucleo delle proposte della cosiddetta “terza via” alternativa al capitalismo liberista e all’invadenza dello stato burocratico. Tali proposte saranno tradotte in programmi di governo di molti Paesi europei che hanno adottato un ciclo storico di riforme del mercato del lavoro e dello Stato sociale (la flexsecurity) per rendere economicamente e socialmente sostenibili le implicazioni sul mercato del lavoro e della distribuzione del reddito l’impatto delle innovazioni tecnologiche e l’apertura dei mercati internazionali. Il tentativo di costruire delle solide convergenze con queste esperienze europee, portato avanti in prima istanza da Massimo D’Alema alla fine degli anni 90, è miseramente fallito per l’ostilità manifesta della Cgil. Una contrapposizione che diventerà radicale nei primi anni duemila, quando le riforme della flexsecurity rapportate al contesto italiano, formulate nel Libro bianco sul mercato del lavoro italiano redatto da un gruppo di studiosi coordinato da Marco Biagi, sono state recepite nella legge di riforma del mercato del lavoro varata dal Governo di centrodestra. Per molti anni la sinistra italiana ha rinunciato completamente a rielaborare il rapporto tra le innovazioni delle organizzazioni produttive e le dinamiche del mondo del lavoro, e di andare oltre la mera difesa pregiudiziale dei diritti costituiti per la parte nobile della classe operaia e dei pubblici dipendenti. Il costo delle mancate riforme per il nostro Paese è del tutto visibile nei divari negativi dei tassi di crescita: dell’economia, dell’occupazione, della produttività e dei salari dei lavoratori drasticamente peggiorati nel corso degli anni duemila nel confronto con i Paesi europei che le hanno messe in pratica. Le implicazioni economiche e sociali della stagnazione dell’economia hanno stravolto i tratti antropologici della comunità italiana: la riduzione del tasso di natalità; l’incremento del numero delle persone a carico di quelle che lavorano; l’aumento degli squilibri territoriali, generazionali e di genere. La crescente difficoltà delle imprese nel trovare lavoratori competenti e disponibili nel Paese sviluppato che registra il più basso tasso di impiego delle risorse umane rappresenta una sintesi efficace del degrado del nostro mercato del lavoro. Ma altrettanto evidenti sono i costi politici delle mancate riforme. Il combinato disposto della difesa corporativa dei diritti precostituiti e dell’uso improprio della magistratura per alterare gli esiti elettorali, ha contribuito in modo decisivo al fallimento dei tentativi di riformare le istituzioni con un approccio politico bipartisan (quello già richiamato di D’Alema, la prima fase del nuovo Pd guidata da Veltroni, le riforme sociali e istituzionali del Governo Renzi) e alla delegittimazione dell’intera classe dirigente dei partiti che hanno animato la stagione della “seconda Repubblica”, lasciando un campo aperto per la deriva populista delle rappresentanze politiche. Il nuovo Sol dell’avvenire della sinistra italiana è rappresentato dall’evocazione della “società dei diritti”. L’obiettivo è quello di costruire un polo progressista capace di veicolare il variegato arcipelago delle rivendicazioni dei diritti civili, economici e ambientali che devono essere imposti alla collettività con l’utilizzo dei linguaggi e dei comportamenti politicamente corretti, a prescindere dalla ponderazione delle compatibilità economiche politiche e sociali di queste rivendicazioni. Le leggi di civiltà vengono utilizzate come armi di distrazione di massa da parte delle élite cosmopolite e benpensanti per compensare l’incapacità di offrire risposte credibili ai problemi economici e sociali. Un modo elegante ed efficace per ripulire l’immagine e tranquillizzare le proprie coscienze. Parte fondamentale di questo disegno rimane la costruzione di un reddito di base universale con il concorso fondamentale dello Stato e della spesa pubblica, con l’erogazione di sussidi assistenziali incondizionati, l’imposizione per legge dei salari minimi, con politiche fiscali fortemente progressive accompagnate, se non bastasse, dalle limitazioni per l’accesso ai servizi e alle prestazioni per i redditi medio-alti. È il diritto ad avere un reddito a prescindere dal lavoro, e una distribuzione della ricchezza indipendente dalla sua generazione. Un combinato disposto di statalismo, assistenzialismo, pacifismo e individualismo, che teorizza il diritto ad avere un reddito a prescindere dal lavoro e una distribuzione della ricchezza indipendente dalla sua generazione. La pretesa di rappresentare la parte migliore delò popolo italiano, a prescindere dal consenso reale, viene acutamente descritta da Luca Ricolfi in una recente intervista rilasciata al settimanale Panorama nell’occasione della presentazione del suo ultimo libro (La mutazione. Come le idee della sinistra sono migrate a destra, 2022): “…prevale sin dai tempi del Partito comunista l’incapacità di analizzare la realtà in modo scientifico… da qui la tendenza a chiedersi di qualsiasi proposizione empirica non se sia vera o falsa ma se sia utile o dannosa alla causa. Con un esito finale: la totale incapacità di guardare la realtà con lenti non ideologiche”. La possibilità di risalire la china da parte del Pd, metabolizzando gli errori del passato, viene sostanzialmente impedita dal fatto che una buona parte dell’attuale gruppo dirigente è stata selezionata e legittimata per aver cavalcato questa deriva al punto di farla diventare pressoché irreversibile.L’ipotesi della costruzione del campo largo, cullata dal segretario del Pd, Enrico Letta, si è tradotta nella definizione del perimetro del confronto tra due visioni incompatibili del futuro del centrosinistra italiano. Esse si rendono del tutto evidenti nell’adesione a manifestazioni e rivendicazioni di segno opposto, con una rilevante prevalenza dei dirigenti orientati verso un’alleanza organica con il M5s per dare vita a un polo progressista radical populista. Un esito altamente prevedibile, ma che comporta un’elevata probabilità di generare l’ennesima scissione del partito e di sancire l’esaurimento di un ciclo politico della sinistra italiana.

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