Cronaca

“Corsie dell’orrore: il primario molestatore e la sanità pubblica in stato terminale”

di Riccardo Bizzarri (*)

 

 

Italia, 2025. Mentre le corsie degli ospedali si svuotano di personale, le liste d’attesa si allungano più delle code ai caselli a Ferragosto, e i medici di base sono diventati creature mitologiche al pari dell’unicorno, spunta l’ultima, raccapricciante perla dal Pronto Soccorso dell’assurdo: il primario di radiologia dell’ospedale di Piacenza, Emanuele Michieletti, viene licenziato per giusta causa dopo essere stato arrestato con l’accusa di violenza sessuale aggravata e atti persecutori contro colleghe dottoresse e infermiere.

Una realtà che supera la più nera delle fiction, condita da un silenzio di reparto che, più che clinico, suona ormai complice. “Donne in stato di soggezione e omertà”, titola l’ANSA. Un episodio che grida allo scandalo, ma in un sistema sanitario dove ormai l’unico pronto intervento è quello per le figuracce, non stupisce nessuno.

«Abbiamo avviato verifiche interne», ha dichiarato con esemplare tempismo Paola Bardasi, direttrice generale dell’Ausl di Piacenza. Verifiche che, come da tradizione italica, arrivano puntuali come l’autobus dopo che ti sei messo a camminare. La direttrice promette anche la possibilità di costituirsi parte civile: un gesto lodevole, purché non finisca nel grande archivio dei buoni propositi con la muffa.

Intanto, il dottor Michieletti ha scelto il silenzio davanti al giudice. Si avvale della facoltà di non rispondere, e noi ci avvaliamo della facoltà di chiederci come sia potuto restare lì, per anni, in un ospedale pubblico, a distribuire terrore invece di cure.

Viene in mente Cicerone, quando nel Senato romano gridava: “Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?”  fino a quando, Michieletti, abuserai della nostra pazienza? O, meglio, fino a quando certi personaggi potranno agire indisturbati in strutture pubbliche pagate con le tasse di tutti?

Eppure, forse ci eravamo distratti, occupati come siamo a trovare ginecologi disponibili, a prenotare esami con l’attesa di un parto elefantiaco, o a capire se il nostro medico è ancora vivo o è stato trasferito in qualche buco nero burocratico. In una sanità dove il burnout è una mansione, e i turni massacranti sono la nuova normalità, è sempre più difficile accorgersi del marcio. Perché quando tutto puzza di disorganizzazione, non distingui più il tanfo del crimine da quello dell’inefficienza.

Non bastavano i tagli, le fughe dei medici all’estero, gli ospedali a pezzi: adesso abbiamo anche i primari con l’anima da villain di un noir scadente. E se una volta la camicia bianca del medico era simbolo di rispetto, oggi pare possa nascondere anche il peggio.

In un Paese dove la sanità pubblica è diventata l’equivalente di una barca con più buchi che legno, resta una domanda: è possibile ricostruire un sistema sano da fondamenta così corrotte? O continueremo a tappare falle con i comunicati stampa, mentre il Titanic sanitario va a picco, con tanto di orchestra a suonare in sala operatoria?

L’unica radiografia che oggi possiamo fare è quella al sistema stesso. E, purtroppo, la diagnosi è infausta: metastasi etica, necrosi istituzionale e prognosi riservata, ma con forti sospetti di recidiva.

(*) Giornalista

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