Politica

Crisi pandemica e principi costituzionali

di Corrado Marvasi

(Red) Uno degli argomenti più caldi del nostro giornaliero dibattito socio-politico è costituito dal lavoro, soprattutto nell’attuale emergenza pandemica che crea tante vittime sul piano sanitario ed economico. Imprese costrette a chiudere, con migliaia di dipendenti lasciati a casa e con la povertà che cresce a macchia d’olio colpendo “partite IVA” e lavoratori d’ogni ordine e grado: mai una crisi del genere s’era vista dal dopoguerra. E che si tratti di guerra non v’è dubbio: il nemico, questa volta, è invisibile e la paura serpeggia quasi ancora più intensamente, come lo è quando il tuo rivale in modo subdolo, vigliacco, ti colpisce per un abbraccio, un saluto, una stretta di mano, ossia ti colpisce in quelle che sono le basi della socialità umana. E quando parliamo di socialità, cos’altro se non il lavoro ne è maggiormente intriso? Anche da qui, da tale punto di vista, spiccano le enormi perdite che nell’attuale momento storico sta subendo il mondo dell’occupazione.
La Costituzione significativamente, al primo articolo, enuncia il carattere fondamentale che il lavoro riveste per la nostra democrazia. In altri termini, la Repubblica italiana è nel lavoro che individua le proprie radici, il pilastro costitutivo che ne supporta le origini. Tralasciamo le critiche di quanti, tra gli stessi costituenti, non comprendevano il significato di una democrazia “fondata sul lavoro” e che avrebbero preferito riferirsi alla “giustizia sociale”, ovvero alla “partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Ponendo, quindi, da parte le controproposte espresse in sede dei lavori assembleari (per queste e per le discussioni che seguirono rimandiamo a V. Falzone – F. Palermo – F. Cosentino, La costituzione della Repubblica Italiana illustrata con i lavori preparatori, Roma, 1948, 21 s.), ci limitiamo a ricordare come critico nei riguardi di quella formula fu anche Calamandrei, il quale chiese ai Colleghi quale contenuto avrebbe dovuto ricavarne per consegnarlo ai suoi studenti, non trovandovi un “senso compiuto”.
Invero – se si legge il citato art. 1 unitamente al successivo art. 4 che, dopo avere al 1° comma qualificato il lavoro come diritto, al 2° comma pone a carico di ogni cittadino il “dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” –, sembra di trovarsi al cospetto del lavoro, in ogni sua manifestazione, quale valore essenziale dell’esistenza umana nel suo naturale contesto relazionale. Un valore tanto più pregnante se si considera che all’inizio il dovere de quo era, in ipotesi di omesso adempimento, accorpato alla sanzione del mancato esercizio dei diritti politici e che solo in seguito la stessa venne soppressa sul rilievo della sua contrarietà al precetto, sempre costituzionale, circa la non limitabilità del diritto di voto “se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile” (attuale 4° comma dell’art. 48).
A questo punto – in continuità con la legislazione seguita alla prima codicistica italiana che nel solco della disciplina napoleonica non si interessò del diritto del lavoro, lasciando alla libera contrattazione delle parti la fissazione degli accordi -, il messaggio sul lavoro che ci perviene dai costituenti occupa un rilievo assoluto. Ecco che, nuovamente, traspaiono gli enormi danni prodotti dall’odierna crisi pandemica, poiché, come anticipato e come possiamo constatare, l’intera vita del Paese è bloccata: a causa del virus si muore o, nel migliore dei casi, si resta fortemente provati nel fisico e/o nella psiche anche per effetto delle gravissime perdite subite dall’universo occupazionale. Ecco, dunque, oltre agli scioperi delle categorie di settore, le continue manifestazioni di piazza che coinvolgono imprenditori e dipendenti, accomunati da un’unica aspirazione: la sopravvivenza per sé e le proprie famiglie.
Lo Stato, che ha messo il lavoro al centro dei principi fondanti della democrazia, non può disinteressarsi del fatto che interi comparti della catena produttiva siano in ginocchio. Ma, quando parliamo di lavoro, non possiamo riferirci ad attività solo materiali, bensì pure a quelle spirituali. Lo abbiamo visto dal testo dell’art. 4 della Costituzione e lo ricaviamo anche dall’art. 2060 del cod. civ. che, appunto, tutela il lavoro “in tutte le sue forme organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche e manuali”. La filiera che abbiamo definito “produttiva” si amplia ed il lavoro ci appare come un monolito con tante sfaccettature, ove non esistono distinguo tra chi dirige e chi esegue, ovvero tra modalità di trasformazione o di interpretazione della realtà: chiunque e in qualsiasi modo vi partecipi, anche in termini intellettuali e culturali, va garantito per le prestazioni che offre e che confluiscono nell’immenso bacino della fruizione collettiva. È del resto alla soddisfazione del bisogno individuale e comune che bisogna guardare e, dunque, ad una cornice ove non esistono confini e dove l’uomo si riscopre nella sua essenza naturale, nel quale il lavoro è il motore della vita. In siffatto ambito, non si fa differenza tra chi “comanda” e chi “obbedisce”, essendo tutti sullo stesso piano: l’autoconservazione.
Le piazze si riempiono ed ognuno reclama una protezione che le istituzioni non possono pretermettere, sicché accanto ai ristoratori ed agli albergatori troviamo, ad esempio, gli artisti a rivendicare la salvaguardia sancita dalla Costituzione, ove, sempre alla luce delle intenzioni dei suoi Padri, il vocabolo “lavoro” va considerato nella “pienezza della sua espressione” (on. Dominedò), mentre, come anticipato, per lavoratore deve altresì intendersi “lo studioso ed il missionario; lo è l’imprenditore, in quanto lavoratore qualificato che organizza la produzione” (on. Ruini).
Orbene, nel presente contesto – nel quale non solo le saracinesche di tanti negozi, ormai senza merce, si sono abbassate, ma restano chiusi teatri, cinema, palestre, musei, ecc., affiorando ovunque, in modo viepiù netto, vizi e manchevolezze della macchina organizzativa e garantistica che compete allo Stato (tipico è il caso dei giudici onorari) –, nozioni, quali dignità e professionalità, di norma accostati alla posizione del dipendente, si estendono ad ogni assetto, poiché le stesse non valgono qui a definire rivendicazioni nei confronti della classe datoriale (come potrebbero essere, da ultimo, quelle dei rider e degli addetti alle consegne: la vicenda Amazon insegna), ma a deficit istituzionali che compromettono diritti fondamentali d’ogni cittadino.
In siffatto scenario, a doversi evidenziare non è tanto l’articolato che la Costituzione dedica al prestatore quale parte più debole (in specie l’art. 36) – cui va il dovuto riconoscimento sia sotto l’aspetto retributivo, sia morale per la qualità dell’opera prestata -, ma, per quanto adesso rileva: il principio di uguaglianza sostanziale fissato dall’art. 3, 2° comma, della legge fondamentale che stabilisce come compito della Repubblica di eliminare gli ostacoli che “impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, sociale e economica del Paese”; l’art. 9 sulla promozione e lo sviluppo della cultura; l’art. 38 sul diritto al mantenimento e all’assistenza sociale di “ogni” soggetto inabile al lavoro; l’art. 41 sulla libertà d’impresa.
Ora, atteso il tenore dell’art. 35, 1° comma, che in stretto nesso con l’art. 2060 del cod. civ., sancisce la tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, è evidente come s’imponga un ineludibile impulso a che le istituzioni si adoperino affinché la cittadinanza, senza esclusione categoriale alcuna, sia aiutata con adeguati mezzi in siffatto momento di profonda crisi, iniziato da oltre un anno e non si facciano trovare impreparate, né con restrizioni immotivate, né con ristori insufficienti, né con omessi supporti a beneficio di quanti siano stati costretti a chiudere la propria attività.
Non vogliamo mettere in campo raffronti con altri Paesi, ove la emergenza sarebbe stata affrontata attraverso erogazioni celeri e quantitativamente proporzionati. Non può, tuttavia, non rilevarsi come “qualcosa” non abbia funzionato in Italia e come della situazione, che per contagi è una delle più gravi al mondo (e tale profilo detta già un pesantissimo punto a svantaggio della nostra macchina organizzativa), vada presa coscienza, sì da consentire ad ogni associato (“partita iva” o meno) di sostenere l’odierna sfida economica: lo intima la pressante esigenza di superare il guado, lo intimano i nostri Padri costituenti con disposizioni emanate nell’immediata epoca postbellica.

CORRADO MARVASI
Avvocato con esperienza quarantennale, attual¬mente si dedica alla ricerca in campo giuridico cercando di coniugare l’esperienza maturata in tanti anni di professione con l’approfondimento del diritto nei suoi vari settori.
E’ autore di numerose pubblicazioni in materia giuridica, fra cui monografie per i tipi Giuffré, Maggioli e Altalex, partecipando alla redazione di Trattati per i tipi Cedam, da ultimo Co-cura¬tore del “Manuale del condominio riformato” (Cedam 2014).
Ha curato il Trattato Le locazioni (2015) per i tipi Cedam

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