Esteri

Dalla Tunisia spunta il Robin Hood cartaginese

di Fabio Marco Fabbri

 

Dal professor Fabio Marco Fabbri riceviamo e volentieri pubblichiamo

 

Il presidente tunisino Kaïs Saïed dopo avere indossando il costume dell’epico Robin Hood per recuperare guadagni illeciti di imprenditori tunisini accusati di reati economici, si trova ora in difficoltà per l’impossibilità di proseguire nel ruolo di colui che toglie ai ricchi per dare ai poveri. I media tunisini – 121esima posizione, Rsf, libertà di stampa su 180 Paesi – con molta cautela, in questi ultimi giorni sono concentrati sulla questione conosciuta come “amnistia giudiziaria”, che avrebbe dovuto essere la carta economica vincente di Saïed. Questa operazione socio-finanziaria è finalizzata al recupero di proventi illecitamente riscossi da oltre quattrocentosessanta imprenditori tunisini, accusati di aver approfittato del sistema di finanziamenti applicato durante la dittatura dell’ex presidente Zine El-Abidine Ben Ali (al Governo dal 1987 al 2011, e deceduto nel 2019). Gli importi stimati da recuperare sarebbero stati complessivamente di circa 13,5 miliardi di dinariquasi quattro miliardi di euro. Kaïs Saïed aveva sperato di recuperare questi importi per destinarli a progetti di valore sociale in aree del Paese ritenute sottosviluppate rispetto alla media o svantaggiate. Questa operazione fu proposta e dettagliata solo tre giorni dopo il colpo di Stato del 25 luglio 2021, quando Saïed, congelando le attività del Parlamento, assunse i pieni poteri. Da qui nacque l’idea di “riconciliazione penale” che prendeva ispirazione da un rapporto pubblicato a fine 2011, anno della cosiddetta “primavera araba” e della caduta di Ben Ali, dalla commissione nazionale d’inchiesta. Tuttavia, tale operazione si è rivelata da subito molto complessa ma soprattutto meno redditizia di quanto previsto dalle autorità incaricate della gestione. Però l’organo delegato ad effettuare questa operazione di recupero, tra marzo 2022 e gennaio 2024, è riuscito a riscuotere solo quasi ventisette milioni di dinaricirca otto milioni di euro. Uno scarno e deludente risultato. Di fronte a questo fallimento, il 17 gennaio il Parlamento tunisino ha modificato la legge inerente questa operazione, con lo scopo di permettere al presidente e al suo Consiglio di sicurezza nazionale di costringere gli imprenditori, disobbidienti o reticenti, a corrispondere le somme frutto di illeciti, senza dare la possibilità di temporeggiare o attivare operazioni legali tese a contestare le richieste di recupero di tali importi. Insomma, secondo il parere dell’ex magistrato Ahmed Souab, precedentemente componente della Commissione per la confisca dei beni illeciti del presidente Ben Ali e dei suoi familiari, tale atteggiamento si configura chiaramente come un ricatto. Souab ritiene inevitabilmente fallimentare la missione di recupero, in quanto tali somme comprendono beni già confiscati o oggetto di compravendita tra vari soggetti, anche legati allo Stato, effettuate dopo la caduta del regime dittatoriale. In pratica, quanto richiesto da Saïed non è più di proprietà di molti di quei soggetti accusati di appropriazione indebita. Conoscendo le modalità governative di Saïed, decisamente spicciole e lontane dalle mediazioni, le azioni messe in campo sono ora votate verso l’imposizione di esborsi concreti da parte dei debitori, o verso l’arresto, quindi con provvedimenti penali. Così, il sistema giudiziario tunisino si è affrettato a mettere in atto queste minacce, arrestando, a fine 2023, numerosi imprenditori come il genero del dittatore Ben Ali, Marouane Mabrouk; un ex ministro, Abderrahim Zouari, che a fronte di una cauzione onerosa, diversi milioni di dinari, è stato liberato; Kamel Eltaïefinfluente uomo d’affari considerato una delle “menti” di Ben Ali. Tutti gli indagati sono comunque sotto continua pressione del tribunale di Tunisi. La legge emanata il 17 gennaio, che modifica la normativa precedente a favore di un maggiore potere al capo dello Stato che è anche presidente del Consiglio di sicurezza nazionale, dà la facoltà a Saïed di determinare unilateralmente l’importo da pagare in modo perentorio. Ora, il potere coercitivo del presidente tunisino anche in questo ambito è assoluto. E così passa la notizia che Saïed avrebbe affermato che chiunque intenda evitare i tribunali e il carcere deve pagare. E chi vuole uscire dalla prigione deve pagare. Insomma, basta pagare e molto si risolve. Ma probabilmente il Robin Hood cartaginese cerca anche altro. Forse una “liceità politica” in mancanza di una legittimità elettorale smarrita, dopo aver agito illegalmente nel gioco pseudo-democratico del Paese? O anche un desiderio, non di regolamentare, ma di controllare il sistema economico? Oppure una giustificazione per i fallimenti economici addebitabili a un sistema autoritario, che lo vede prendere posizioni internazionali senza un vero appoggio della sua nazione? Le risposte ci saranno quando questo regime spirerà sotto la pressione del tempo e dei tunisini, e magari di “altri”, come nel 2011.

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