In questo mese di settembre ripartirà il tavolo della riforma previdenziale e pensionistica, che potrebbe accogliere i contributi attesi dal CNEL entro ottobre ma che dovrà fare i conti con la consueta coperta corta delle risorse finanziarie a disposizione del Governo e da destinare al capitolo previdenziale della prossima Legge di Bilancio. Le misure in discussione mirano peraltro a garantire un maggior equilibrio del sistema previdenziale italiano, non certo a semplificare le pensione anticipate. Anzi: di fatto, l’Esecutivo Meloni muove verso una penalizzazione della flessibilità in uscita, sulla scia di quanto già previsto con la Manovra 2024. In vista potrebbe esserci un allungamento delle finestre per la pensione anticipata, l’estensione massiva del calcolo contributivo dell’assegno futuro e l’obbligo di previdenza complementare tramite investimento del TFR per agganciare il requisito anagrafico per la pensione dei giovani. Secondo le prime indiscrezioni sulla legge di Bilancio 2025, è allo studio un allungamento delle finestre di accesso alla pensione anticipata, che attualmente, si ottiene con 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne, ed una finestra mobile di 3 mesi. L’ipotesi che circola è quella di estendere la finestra a 6-7 mesi, indipendentemente dall’età. Se confermata, questa misura porterebbe gli uomini a uscire dal mondo del lavoro dopo 43 anni e 4-5 mesi di contributi, e le donne dopo 42 anni e 4 mesi.
Questo allungamento mirerebbe a bilanciare il canale di Quota 103, che è diventato meno accessibile e meno conveniente. Nel 2025 potrebbe arrivare un cambiamento significativo per chi mira a ottenere la pensione anticipata sulla base dei contributi versati. Si tratta però di una ipotesi meno probabile, che riguarderebbe l’estensione del metodo di calcolo contributivo per tutte le pensioni anticipate. Questo cambiamento comporterebbe un risparmio per lo Stato, ma risulterebbe impopolare sia per l’attuale maggioranza sia per i sindacati, poiché ridurrebbe l’importo della pensione per molti lavoratori. La situazione pensionistica dei giovani italiani è particolarmente preoccupante, costituendo un’altra priorità da affrontare nella Riforma Pensioni 2025. Secondo l’OCSE, un ventenne di oggi potrebbe dover lavorare fino a 71 anni per ricevere una pensione, e l’importo del vitalizio sarebbe comunque inferiore rispetto a quello delle generazioni precedenti. Questo scenario evidenzia la necessità di riforme strutturali. Tra le soluzioni praticabili per migliorare la situazione pensionistica dei giovani, una possibilità è rappresentata dalla previdenza complementare, che però in Italia non ha ancora preso piede come in altri Paesi europei. Imporre l’obbligo di destinare una quota del TFR ai fondi pensione, prevedendo in tal senso un meccanismo di silenzio assenso,permetterebbe a fine carriera di accedere ad un capitale integrativo rispetto alla pensione pubblica, contribuendo anche a raggiungere il requisito soglia per la pensione anticipata contributiva a 64 anni. Non solo: ridurre le imposte sulle prestazioni previdenziali potrebbe incentivare una maggiore adesione tra le nuove generazioni.
Stop alla pensione obbligata per i lavoratori pubblici?
Nuova ipotesi sul fronte pensioni in vista della Manovra 2025. Il Governo studia un meccanismo per consentire ai dipendenti pubblici di restare in servizio dopo l’età pensionabile abolendo l’obbligo di collocamento in pensione il personale al raggiungimento del limite ordinamentale, e anzi si pensa a incentivare il trattenimento in servizio.
L’anticipazione è del Messaggero, e sarebbe una misura allo studio pensata per evitare la fuoriuscita di troppi dipendenti, magari esperti, a fronte di uno scarso turnover. Evitando così il rischio di impoverire la forza lavoro pubblica ma anche le casse dello Stato. Attualmente, nel settore pubblico, i dipendenti vanno automaticamente in pensione quando raggiungono il limite ordinamentale, in genere 65 anni, a meno che non abbiamo ancora diritto alla pensione in base ai contributi versati. La norma allo studio consentirebbe invece più facilmente di restare in servizio oltre l’età pensionabile. La ratio è quella di rallentare le fuoriuscite dal lavoro dei dipendenti pubblici con anzianità ed esperienza. Si tratta di professionalità difficilmente sostituibili in un momento di scarse risorse a disposizione, per cui il settore pubblico non riesce a essere competitivo con il privato nella ricerca di personale qualificato. Il meccanismo in preparazione è su base facoltativa e richiederebbe un accordo fra la pubblica amministrazione e il dipendente. In base al quale lavoratore non potrebbe restare in servizio senza il placet del datore di lavoro, che a sua volta non potrebbe trattenere unilateralmente in servizio il dipendente pubblico senza il suo consenso. Per stimolare i lavoratori a utilizzare lo strumento, non si esclude che vengano anche previsti degli incentivi economici in busta paga. Si tratterebbe, par di capire, di uno strumento simile a quello previsto dal cosiddetto Bonus Maroni, che comporta un vantaggio contributivo per coloro che rimangono al lavoro pur avendo il requisito per la quota 103. O come la disposizione dell’ultimo Milleproroghe che consente ai medici di restare in servizio fino a 72 anni. Non si conoscono al momento altri dettagli, ad esempio sul modo in cui verrebbe calibrato l’eventuale incentivo, o sulle modalità operative per il trattenimento in servizio oltre l’eta pensionabile.
Fonte pmi.it