di Natale Forlani
Quali sono le cause della riduzione del tasso di crescita dell’economia e dei redditi da lavoro negli anni 2000? L’opinione prevalente le attribuisce alla globalizzazione degli scambi commerciali, alle politiche del lavoro che hanno comportato una riduzione delle tutele e dei salari dei lavoratori, ai vincoli per la spesa pubblica imposti dalle istituzione europee che hanno compresso i margini di risposta da parte degli Stati nazionali. La sospensione di questi vincoli durante la pandemia Covid è stata pertanto accolta con grande favore. Non solo per la ragionevole esigenza di salvaguardare le strutture produttive durante i lockdown, ma come la presa d’atto del fallimento di un’intera stagione delle politiche economiche di stampo liberista. La ripresa dell’inflazione e l’esigenza di fare i conti con la sostenibilità del debito pubblico, nel frattempo aumentato di oltre 20 punti nel rapporto con il Pil, ci riporta al dover fare i conti con la realtà. Con i tassi di crescita del Pil che risultano inadeguati per contenere la crescita spontanea della spesa pubblica corrente per effetto dell’invecchiamento della popolazione, e che non consentono di offrire risposte credibili alla necessità di aumentare i salari e l’occupazione sul breve e medio periodo. L’esigenza di fare i conti con la realtà è resa evidente da due ulteriori criticità: l’incapacità di utilizzare in modo adeguato i fondi del Pnrr e la difficoltà delle imprese e della Pubblica amministrazione di assumere le risorse umane indispensabili per espandere le attività produttive e i servizi. Difficoltà che è aumentata in modo esponenziale negli ultimi 2 anni fino ad arrivare al 47% dei fabbisogni professionali. Una condizione che fa mancare il carburante indispensabile per la ripresa degli investimenti. Se questi rilievi hanno un fondamento, la causa prevalente dei nostri mali non è da attribuire a fattori esterni, ma alla nostra incapacità strutturale di utilizzare in modo produttivo le risorse disponibili. La spesa per gli investimenti della Pubblica amministrazione si è ridotta costantemente nel corso degli anni 2000 e i margini di espansione del deficit pubblico concordati con le istituzioni dell’Ue dai Governi di vario colore con il pretesto di invertire la tendenza sono stati utilizzati per aumentare la spesa corrente. In particolare per implementare la spesa di natura assistenziale per sostenere le pensioni e i redditi di varia natura, e finanziare il costo degli interessi sul debito pubblico. Sul versante della produzione e del mercato del lavoro, i settori esposti alla concorrenza internazionale sono stati capaci di reggere la sfida e negli anni recenti anche di aumentare l’occupazione. Cosa che non è avvenuta nel complesso dei comparti del terziario che hanno registrato un costante calo degli investimenti e della produttività anche per i settori (la sanità, l’assistenza e l’istruzione) che dipendono in modo significativo dalle caratteristiche della spesa pubblica. Attività economiche che hanno svolto un ruolo determinante per la crescita dell’occupazione negli altri Paesi europei, e per la crescita del tasso di occupazione delle donne. Nei comparti economici del commercio, del turismo, della ristorazione e della logistica si concentra l’espansione dei contratti a termine e part-time che vengono assimilati nel dibattito politico corrente ai redditi da lavoro poveri. Il blocco delle assunzioni nella Pubblica amministrazione ha comportato una riduzione di circa il 20% della quota di assorbimento dei giovani laureati nel mercato del lavoro, e un contributo negativo per il mancato ricambio generazionale e per la riduzione della quota delle qualifiche medio elevate sul totale dell’occupazione. Le condizioni per risalire la china oggi sono decisamente peggiorate. Le conseguenze del declino demografico si sono trasferite nella riduzione delle persone in età di lavoro e nell’aumento di quelle a carico di chi lavora. È in atto un cambiamento profondo delle dinamiche della domanda e dell’offerta di lavoro sospinte dall’incremento dei fabbisogni di personale disponibile e competente che sta aumentando la propensione delle imprese a stabilizzare i rapporti di lavoro. La crescita dei rapporti a tempo indeterminato nel corso degli ultimi due anni risulta costantemente superiore all’aumento del numero dei nuovi posti di lavoro. Una tendenza che potrebbe essere ulteriormente migliorata investendo sulle competenze delle risorse umane per soddisfare fabbisogni occupazionali che non riscontrano lavoratori disponibili. Una condizione favorevole per aumentare i tassi di occupazione dei giovani, delle donne e dei territori meno sviluppati. Resta da spiegare il perché l’evidenza dei numeri non riesca a trovare un riscontro nell’orientamento delle classi dirigenti e delle politiche economiche che continuano a essere caratterizzate dalla pretesa di redistribuire il reddito che non viene generato. La propensione ad attribuire le responsabilità del declino ai fattori economici e ai protagonisti esterni alla nostra Comunità nazionale è una prassi consolidata e trasversale agli schieramenti politici. Rappresenta la matrice delle derive populiste e l’alibi dei Governi in carica per motivare l’impossibilità di dare seguito alle promesse elettorali. È una prassi, tuttora utilizzata, per evitare di fare i conti con le analisi sbagliate della realtà. L’ampliamento della spesa pubblica per sostenere i redditi delle persone e delle famiglie genera un naturale effetto di dipendenza di una quota rilevante della popolazione che beneficia in presa diretta o indiretta dei sostegni al reddito. I provvedimenti adottati per motivi emergenziale diventano strutturali e di solito vengono ampliati per assecondare le rivendicazioni di ceti e categorie professionali che si ritengono penalizzate. Il cambio di passo diventa possibile a tre condizioni. La prima dipende dalla presa d’atto collettiva che non si può pensare di redistribuire il reddito in assenza di una crescita degli investimenti, della produttività e del tasso di impiego delle persone in età di lavoro. Un cambio di passo che potrebbe avvenire per la palese impossibilità di procrastinare nel tempo le politiche fallimentari che hanno comportato un rilevante spreco di risorse. Ridurre gli sprechi e aumentare la produttività delle organizzazioni produttive e dei servizi richiede il concorso attivo e contributivo delle realtà imprenditoriali e delle rappresentanze del mondo del lavoro che oggi partecipano in modo irresponsabile alla spartizione della spesa pubblica. L’utilizzo delle risorse del Pnrr rappresenta il banco di prova per l’intera classe dirigente del nostro Paese non solo per la Pubblica amministrazione. I margini di agevolazione fiscale devono essere rivolti ad agevolare gli investimenti, e la crescita dei salari legata alla produttività. È il solo modo, confortato da solidi esempi nel settore manifatturiero, per poter aumentare i salari e l’occupazione in modo stabile. Per vari motivi, non siamo più dotati di energie imprenditoriali e lavorative sufficienti per assicurare tassi di crescita economica adeguata. Il cambio di paradigma comporta anche una seria riflessione su come rendere attrattiva la nostra economia e i territori interni per gli investimento internazionali e per aumentare la qualità dei flussi di immigrazione per motivi di lavoro.