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Fondazione Murialdi: Silvia Resta racconta la vita di Massimo Rendina, il grande “giornalista partigiano”

Il libro, curato da Silvia Resta, bravissima giornalista televisiva inviata speciale del Tg La7, “Il giornalista partigiano. Conversazioni sul giornalismo con Massimo Rendina” (stampato dalla casa editrice All Around) è una lunga conversazione con un prestigioso esponente della resistenza e del giornalismo italiano, Massimo Rendina, che è stato anche il primo direttore del telegiornale della Rai, estromesso poi dal suo incarico per motivi politici. “Sono stato direttore del telegiornale un paio d’anni. Poi -racconta Massimo Rendina a Silvia Resta- fui cacciato. Su due piedi mi fu comunicato che avrei dovuto lasciare “perché ero comunista. Io fui cacciato proprio perché mi ribellai a questo potere…Ma certe cose non si possono chiedere a un giornalista partigiano”. Il saggio- che oggi grazie a Giancarlo Tartaglia fa parte del grande patrimonio storico e culturale della Fondazione Murialdi- ripercorre la vita e la storia professionale di Massimo Rendina come mai era stato fatto prima, con un rigore storico e scientifico d’altri tempi, proponendoci un’analisi reale moderna e impietosa sullo stato generale del giornalismo italiano. “Quando andai a trovarlo a casa – racconta Silvia Resta nella sua prefazione al saggio- aveva novantuno anni, era stanco ma ancora lucidissimo e combattivo. Quell’anno la classifica mondiale di Reporter senza frontiere sulla libertà di stampa ci vedeva sprofondati al sessantunesimo posto, dopo la Lettonia, la Moldavia, dopo Haiti, dopo la Bosnia. …Mi offrì un caffè, gli feci due domande: come ha fatto il giornalismo italiano a finire così in basso? Com’era nella visione di voi partigiani? Mi rispose: vieni a trovarmi ogni tanto che ne parliamo. Cominciò così questa storia: una serie di incontri periodici che avevano come tema il giornalismo, la comunicazione e i confini della libertà. Andavo a casa sua, in genere di mattina, e rimanevo un paio di ore, per non stancarlo troppo. Gli facevo domande, suggerivo dei temi, e lui rispondeva intrecciando argomenti profondi con tantissimi straordinari aneddoti della sua vita. Vita professionale – la vita del giornalista – e vita da combattente – quella del partigiano –, che si intrecciavano in un racconto dai tratti a volte quasi epici”. Ecco allora che, “Conversazioni sul giornalismo con Massimo Rendina”, diventa soprattutto il racconto impietoso e senza sconti sullo stato del giornalismo italiano e “sul sogno – naufragato in parte – di chi ha combattuto nella Resistenza per una stampa libera e indipendente”. Dalla mancanza di un editore puro al controllo della politica, dalle pressioni dei gruppi di potere al conflitto di interessi: perché in Italia l’informazione soffre di un deficit di libertà. Un testamento sul mestiere di giornalista e sul suo ruolo di servizio pubblico, lasciato oggi a ognuno di noi da uno degli “eroi della Resistenza” che fu anche il primo direttore del telegiornale della Rai, e che allora aveva una sola edizione. È quasi commovente il racconto che di lui ne fa oggi Silvia Resta: “Per me, curiosa cronista ribelle, era come entrare in una miniera di gemme preziose: la sua storia, la sua visione del mondo, il suo senso di libertà, le sue esperienze nel giornalismo, la sua modernità. Una ventina di incontri che ho registrato con l’iPad: mi sembravano racconti troppo preziosi per lasciarli andare nel vento, e così incisi la sua voce. Non ricordo esattamente se come e perché decidemmo di interrompere. L’ultimo colloquio è del 2012”. Man mano che i mesi passano il grande cronista si ammala, e Silvia Resta incomincia a vederlo sempre di meno. “Ricordo che a un certo punto lui cominciava a essere malato e io smisi di andare. Nei nostri dialoghi (ma era lui che parlava, io mi limitavo a sollecitarlo, a fare brevi domande) abbiamo attraversato quasi un secolo di storia: dal fascismo alla guerra partigiana alla sua esperienza in Rai (lui, primo direttore del telegiornale, da cui fu cacciato con l’accusa di essere “comunista”), dalla tivvù bianco e nero al colore, dalla Democrazia cristiana a tangentopoli al ventennio del berlusconismo, con un filo che cuciva, che attraversava tutto: la funzione del giornalismo, ingrediente della democrazia, mestiere bellissimo che – diceva Rendina – si può fare solo nel pubblico interesse dei cittadini”. Poi un giorno, Silvia gli chiede di poter pubblicare il lungo racconto della sua vita e il vecchio partigiano gli risponde in maniera quasi disarmante: “Ma non sono nessuno, e comunque non ora, aspetta che io sia morto, poi fanne quello che vuoi”. A febbraio 2015 la notizia della sua scomparsa. “Scrissi un suo ricordo per “Articolo.21”, in cui ripresi parte delle sue riflessioni. Un anno dopo, nell’anniversario, organizzammo con l’Ordine dei giornalisti di Roma una piccola cerimonia nella sede della Federazione della stampa, con i familiari e rappresentanti dell’Associazione partigiani, per ricordare Max il giornalista, che era uno di noi”. Dieci anni dopo Silvia riapre quei file. “Ho riaperto quei file e l’iPad mi ha restituito la sua voce: rauca, profonda, stanca ma piena di sapienza. Mi sono detta: ho aspettato abbastanza, questa storia deve essere condivisa. E con pazienza, dal primo all’ultimo colloquio, ho trascritto tutto, puntualmente, parola per parola. Le domande, le pause, i ragionamenti interrotti e le ripetizioni. Questo libro nasce da queste trascrizioni. Lo dico anche per giustificarne lo stile, scarno e non ricercato, che rappresenta però fedelmente il parlato di Massimo Rendina, il suo pensiero. La sua splendida lezione sul giornalismo e sulla libertà. Ho tolto le mie domande, ho tolto le ripetizioni, non ho aggiunto niente se non la punteggiatura. Ho dato un ordine alla trascrizione, ne ho fatto una narrazione in prima persona, lasciando quasi integrale questo racconto straordinario di un partigiano rimasto sempre giornalista o di un giornalista rimasto sempre partigiano. Una lezione per tutti”. Nato a Venezia il 4 gennaio 1920, Massimo Rendina – ricordiamo- muore a Roma il 7 febbraio 2015 all’età di 95 anni. Ancora giovanissimo abitava a Bologna e si era appena avviato alla professione di giornalista quando era stato poi chiamato alle armi. Tenente di Fanteria, al momento dell’armistizio era subito passato con la Resistenza al comando, in Piemonte, di una formazione autonoma alla cui guida, e col nome di battaglia di “Max il giornalista”, aveva combattuto sino al luglio del 1944. Diventato capo di stato maggiore della I Divisione Garibaldi, aveva preso parte alla liberazione di Torino e nel capoluogo piemontese aveva ripreso la professione all’Unità. Dal quotidiano del Pci, Massimo Rendina passa alla Rai, come direttore del primo telegiornale. Invecchia come Docente di Storia della comunicazione, a Roma, dove presiedeva anche l’Associazione degli ex partigiani. È stato membro del Comitato scientifico dell’Istituto Luigi Sturzo per le ricerche storiche sulla Resistenza e nel 1995 pubblicato per gli Editori Riuniti, con prefazione di Arrigo Boldrini, un libro importante, il Dizionario della Resistenza italiana. Credo che prima di morire, da vecchio condottiero quale Massimo Rendina era stato, abbia chiesto di portarsi dietro, stretto attorno al collo, il suo eterno fazzoletto rosso, che forse per lui era il segno distintivo più palese di un uomo davvero “assolutamente libero”. Un maestro insuperabile della parola e del pensiero, e Silvia Resta lo racconta in questo libro con una magia fuori dal comune. 

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