Politica

Giustizia, da (P)unto a capo

di Otello Lupacchini*

 

A fronte dei rumors raccolti e rilanciati da «il Riformista», circa le grandi manovre in corso per insediare il dottor Nicola Gratteri al vertice del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, mi sorge spontanea la domanda, considerata la vocazione di «Rattenfänger» o «ciaparat» che dir si voglia, confessata ore rotundodall’odierno procuratore della Repubblica di Catanzaro, se sia assurta, fra le altre, a irrinunciabile «priorità» del Gabinetto Meloni, anche la «derattizzazione» degli Istituti di pena della nostra amata Patria. Il pretesto per avanzare un simile interrogativo mi è offerto dalla lettura di un passo delle Memoriedell’architetto Andreï Mikhaïlovitch Dostoevskï, fratello del più noto Fëdor, relativo a una delle brutte «sorprese» riservategli dalla cella in cui  era stato rinchiuso dopo una giornata e parte della notte trascorse nella «terza sezione» degli uffici della polizia moscovita, a seguito dell’arresto per motivi politici patito il 23 aprile del 1849, «Non appena si fece buio, e mi portarono il lumino», racconta, infatti, Andreï Mikhaïlovitch, «piano piano cominciarono a comparire dei ratti di dimensioni enormi (…). Talora ce n’erano dieci alla volta e io, temendo che si arrampicassero nella mia cuccetta, non dormivo, fino all’alba. Non riuscivo a capire da dove saltassero fuori (…). Alla luce del giorno non si vedevano. Ma bisogna pur dire che era fine aprile e inizio maggio faceva giorno presto, l’avevo, il tempo per dormire. Oltretutto, dormivo sempre anche di pomeriggio, dopo pranzo». Non mi nascondo il rischio che qualcuno dei tanti, per dirla con Friedrich Nietzsche (Götzen-Dämmerung, 1889), «fari nel mare dell’assurdo», magari un Maitre ein Stifter dell’«io sto con…», incistati da grassi parassiti nelle Istituzioni, «mito impossibile», d’«esaltazione che si toglie la sottana», potrebbe muovermi la resistibile obiezione che n’è passato di tempo da  quando l’architetto Dostoevskï era ospite non di un carcere di questa Nazione, ma di una prigione della Russia zarista, potrebbe muovermi l’accusa, è già successo, del resto, di essere «sarcastico». Poco male. Conservare la propria allegria in mezzo a faccende oscure e oltremodo gravide di responsabilità, non è artificio da poco, ma del resto cos’è più necessario dell’allegria?

Com’è ovvio che sia, il dottor Carlo Nordio, che anche in virtù della sua generalmente riconosciuta cultura garantista è stato insediato al vertice del ministero della Giustizia, certamente, sempre che addirittura non l’abbia già fatto, smentirà sdegnosamente, non solo a parole, naturalmente, ma soprattutto con i fatti, la notizia diffusa da «il Riformista». A meno che non voglia «perdere la faccia». L’Os aureumdi Gerace, infatti, non perde  occasione, nella sua bulimia mediatica nota lippis et tonsoribus, di ostentare l’allergia per la Costituzione, la fedeltà alla quale, nell’ambito della legislazione penale, è specchio dell’autentica democraticità dello  Stato: a prescindere dal suo retorico pessimismo come rigurgito del pranzo sui futuribili in generale del processo penale e specialmente dei «maxiprocessi», per effetto dell’entrata in vigore della pur timidissima riforma Cartabia, aliena gli è l’idea stessa che teoria generale del reato e funzione della pena non siano due momenti concettuali distinti, posto che dal fine costituzionalmente attribuito alla pena può derivare una connotazione globale e sostanziale dello stesso illecito penale; è altresì fuori dai suoi orizzonti culturali il «nuovo volto» del reato, quale risulta dalla combinazione dei principi desumibili soprattutto, ma non solo, dagli articoli 2, 3, 13, 24, 25 e 27 della Costituzione, come fatto previsto in forma tassativa dalla legge, di realizzazione esclusiva dell’agente o in ogni caso al medesimo riconducibile tramite un atteggiamento colpevole (doloso o colposo), idoneo a offendere un valore costituzionalmente significativo, minacciato con una pena proporzionata anche alla significatività del valore tutelato e strutturalmente caratterizzato dal teleologismo costituzionalmente attribuito alla sanzione penale e, infine, intollerante rispetto ad ogni articolazione probatoria che faccia in qualche modo ricadere sull’imputato l’onere della prova o il rischio della mancata allegazione di elementi di ordine positivo che ne caratterizzano la struttura;   al fondo di ogni suo discorso è dato leggere, del resto, il messaggio che tolti lui e quelli che la pensano come lui l’ordine decade a caos, la convinzione, cioè, ch’egli e quelli come lui stiano adempiendo a una sorta di missione salvifica: il male pullula nel mondo, dunque va represso, la scimitarra della giustizia non ha guaine, incombe continuamente. Sintomatico di tutto questo è l’ossessivo susseguirsi, del resto, di «massicce operazioni» o «grandi retate» o «mega blitz» anti-’ndrangheta, con decine e decine, se non addirittura centinaia di arresti, abbattentisi sulla Calabria, per iniziativa della direzione distrettuale antimafia della quale l’Os aureumè a capo; blitz, operazioni e retate che, per dirla con Boncompagno da Signa, «evanescunt sicut umbra lunatica»: dopo le roboanti conferenze stampa promozionali, ben presto esse vengono irrimediabilmente ridimensionate, se non addirittura travolte e totalmente vanificate, nei procedimenti incidentali de libertate, quali riesame e cassazione, e nei dibattimenti davanti ai tribunali o alle corti d’assise o alle corti d’appello o alla corte di cassazione, le motivazioni dei cui provvedimenti evidenziano, in inquietante sintesi, l’incontenibile pulsione che prova il titolare della funzione d’accusa a punire, purtroppo, senza legge, senza verità, senza colpa.

Pur non essendovi evidenza alcuna che il ministro Carlo Nordio sia in qualche modo disponibile a «perdere la faccia» chiamando il dottor Nicola Gratteri al vertice del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, la vulgata, alimentata dal continuo rincorrersi di voci correnti nel pubblico, vedrebbe un bizzarro sodalizio, quello che chiamerò M.U.F., esercitare fortissime pressioni sia sul Governo sia sulle Opposizioni, per favorire la nomina dell’Os aureumdi Gerace.

Pur in mancanza di evidenze in tal senso, non è tuttavia temerario intravvedere, sulla scorta dell’id quod plerumque accidit– si chiama, questa, «prova critica» – quale possa esserne il fondamento, non perdendo di vista né i posizionamenti politici dei membri del M.U.F. né l’influenza che ognuno di essi può avere, e su chi, per le funzioni da essi, sia precedentemente sia attualmente, svolte. Ma altri sono gli indici rilevanti dai quali non si può prescindere. La prigione, come evidenziato dalla letteratura scientifica e constatato, anche da me, nella pratica quotidiana, è di sicuro la più efficace e la più feconda fra tutte le istituzioni che producono illegalismi. Dalle carceri si esce quasi sempre più delinquenti di quando vi si è entrati: per via degli effetti del disinserimento sociale, dell’esistenza del casellario giudiziale, del formarsi di sodalizi delinquenteschi e di tant’altro. Il funzionamento interno delle prigioni, inoltre, è possibile solo a prezzo di un gioco di illegalismi, al tempo stesso molteplici e complessi: i regolamenti interni sono sempre assolutamente contrari alle leggi fondamentali che, nel resto della società, garantiscono i diritti umani; la galera è luogo di violenza fisica e sessuale esercitata sui detenuti, dai detenuti e dagli agenti di custodia; è luogo di commerci incessante e, ovviamente, illegale, tra detenuti, detenuti e agenti di custodia, tra questi e il mondo esterno; è, altresì, un luogo in cui l’amministrazione pratica quotidianamente l’illegalismo, fosse anche solo per coprire agli occhi della giustizia e dell’amministrazione superiore, da un lato, e dell’opinione pubblica, dall’altro, tutti gli illegalismi che si producono al suo interno; è finalmente un luogo di cui gli apparati polizieschi si servono per reclutare la loro manovalanza, i loro informatori, i loro scagnozzi, all’occorrenza i loro assassini e ricattatori.

La sempre maggiore consapevolezza che tra le tante priorità vi sia anche quella del carcere, grave e incivile situazione, indegna perché offende innanzitutto la dignità, a cui si accompagnano la richiesta, dai pulpiti più autorevoli, di riconsiderare il ricorso alla detenzione intramuraria come forma prevalente di esecuzione della pena e la stigmatizzazione del fatto che la restrizione in un penitenziario offende la dignità della persona, negando l’affettività, privando dello spazio e annullando il tempo, che cessa di esistere nel momento in cui chi è recluso in una cella viene anche privato della prospettiva del riscatto, vanno di pari passo con la progressiva perdita d’utilità del ruolo della prigione, quale macchina per la fabbricazione dei delinquenti in vista della diffusione e del controllo degli illegalismi. I grandi traffici di armi, di droga di valuta sfuggono, infatti, sempre più alla competenza di un ambiente di delinquenti tradizionali, che magari erano dei bravi ragazzi, ma forse incapaci, perché formatisi in galera, di diventare i grandi trafficanti internazionali di cui c’è bisogno ora.  Qui, tuttavia, si profila prepotente un altro interrogativo: è concepibile un potere che non ami l’illegalismo, che non abbia bisogno di possedere gli illegalismi, controllarli e mantenersi saldo se non mediante il loro esercizio? La risposta, com’è ovvio è negativa, la domanda va dunque elusa. E chi, meglio dell’Os aureumdi Gerace, o simili, al vertice del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, potrebbe compiere l’esorcismo? Ecco perché, paradossalmente, ma anche con buona pace di tutti, in nome della ragion di Stato, le chancesdi Nicola Gratteri potrebbero essere, nonostante tutto, molto concrete.

*Giuslavorista

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