Primo piano

Il Logos perduto dell’Occidente

Dall’occultamento del Logos alla teopolitica ortodossa

di Marco Palombi (*)

Il collasso spirituale dell’Occidente non è avvenuto nell’oscurità. Si è svolto in piena luce, accompagnato da dati, commenti e statistiche curate. Ma più precisamente si misura il suo declino, meno si capisce. Perché ciò che affrontiamo non è semplicemente il ritiro dell’affiliazione religiosa o della frequentazione delle chiese – anche se entrambe sono in caduta libera – ma l’esaurimento della forma. La scomparsa non di Dio, ma della grammatica teologica. Non della fede, ma della liturgia.

Eppure, paradossalmente, assistiamo alle braci di un ritorno. In quella che Jürgen Habermas chiamava la “condizione post-secolare”, le società laiche stanno riscoprendo la necessità – se non il contenuto – della religione. Nel suo famoso dialogo con Joseph Ratzinger del 2004 (nella foto i due protagonisti), Habermas, a lungo considerato la coscienza laica della moderna democrazia liberale, ha ammesso che le istituzioni democratiche dipendono da risorse morali che non possono generare da sole. La ragione processuale, ha osservato, non è sufficiente a sostenere la solidarietà, il sacrificio o il bene comune. “La ragione da sola”, scrisse, “non ha memoria”.

Questa memoria – l’infrastruttura metafisica dell’Occidente – è stata un tempo portata avanti dal cristianesimo, e in particolare dalla Chiesa cattolica. Ordinava il tempo attraverso il calendario liturgico, lo spazio attraverso la basilica, la legge attraverso il diritto naturale e il potere attraverso la gerarchia simbolica. Quando il cristianesimo non era semplicemente una credenza, ma una forma, non si limitava a coesistere con la civiltà occidentale, ma la costituiva. Come ci ha spesso ricordato Rémi Brague, il cristianesimo non è il contenuto dell’Occidente, ma la sua “forma eccentrica” – un’eredità mediata attraverso Roma, Atene e Gerusalemme, capace di trascendere l’identità tribale attraverso la forma universale.

Ma quella forma è decaduta. La Chiesa, desiderosa di apparire moderna, ha abbracciato gesti di inclusione e di rilevanza. Ma più si adatta, più svanisce dall’immaginario simbolico dell’Occidente. Mark Lilla, in The Stillborn God, sostiene che questo non è semplicemente il risultato della secolarizzazione, ma di un fallimento dell’accomodamento teologico. La teologia liberale, cercando di mantenere l’utilità etica del cristianesimo scartando le sue pretese ontologiche, ha prodotto un moralismo sterile e, con esso, una religione che non comanda né paura né lealtà.

Il risultato è un paradosso: le istituzioni del cristianesimo stanno crollando, ma la fame spirituale che un tempo le animava non è scomparsa. Si è frammentata. Riemerge nel pellegrinaggio, nell’anelito estetico, nelle comunità neomonastiche, nelle liturgie sotterranee e nei catechisti di YouTube.

Come ha dimostrato la sociologa Linda Woodhead, i giovani in Europa non sono meno spirituali, ma più caotici: credono in “qualcosa”, ma non riescono a dargli un nome. Desiderano ardentemente la trascendenza, ma non riescono a trovare un linguaggio per essa. Il sacro sta tornando, ma attraverso la porta di servizio dell’estetica, dell’ecologia e del trauma.

Questo non è un risveglio. È un desiderata.

La post-secolarità è la condizione di volere il frutto senza la radice. L’etica della compassione senza la metafisica della croce. Il mistero del rituale senza la disciplina del dogma. Il calore della comunità senza il peso della trascendenza. Questo è il motivo per cui l’ascesa di identità “spirituali ma non religiose” in tutto l’Occidente non è un segno di resistenza alla secolarizzazione, ma il suo trionfo finale: la privatizzazione del sacro.

Eppure, ci sono anche movimenti di vero ritorno. In Francia, nuove comunità cattoliche come Communauté Saint-Martin, Chemin Neuf e Fraternité Saint-Vincent Ferrier attraggono i giovani non diluendo la dottrina, ma incarnandola – liturgicamente, asceticamente, magnificamente. In Polonia, Ungheria e Croazia, il cristianesimo funziona come una struttura metafisica per resistere al livellamento globalista. In Italia, la crescita dell’apologetica laicale, della catechesi digitale e delle parrocchie tradizionaliste indica una corrente sotterranea di ribellione: non contro la modernità, ma contro la Chiesa disincarnata che la modernità ha prodotto.

Lo stesso vale per il mondo ortodosso. Lì, la liturgia rimane indomita. La Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo continua, senza microfoni né chitarre, a proclamare una cosmologia dello stupore. La sua resistenza all’adattamento non è una debolezza, ma la sua forza. Fornisce un modulo che non può essere utilizzato, ma solo inviato. E questa forma, anche quando è cooptata politicamente, continua a generare coerenza.

Ma la Chiesa latina, nonostante tutta la sua portata istituzionale, appare titubante. Oscilla tra sinodalità e silenzio. Tra preoccupazione ecologica e relativismo morale. Tra la tenerezza della lavanda dei piedi e l’ambiguità di una dottrina ambigua. E da nessuna parte questo è più visibile che nel suo recente trattamento della proprietà, dell’eredità e dell’identità.

Come abbiamo scritto in La Chiesa e il patrimonio nella società liquida (2020), l’evoluzione della posizione della Chiesa sulla proprietà privata, soprattutto sotto Papa Francesco, non è solo una precisazione teologica. È una mutazione di civiltà. In Fratelli tutti, il Papa dichiara che il diritto di proprietà non è assoluto, ma secondario, soggetto al principio prioritario della destinazione universale. Questo può sembrare moralmente indiscutibile. Ma nei suoi effetti pratici, allinea la Chiesa con le stesse forze che cercano di dissolvere la famiglia, la comunità e la persona in masse indifferenziate.

La proprietà privata, come aveva già affermato Pio IX in Qui Pluribus e Nostis et Nobiscum, non è solo un diritto. È una struttura. Crea continuità, difende l’autonomia, genera responsabilità. È il fondamento antropologico della famiglia. Una civiltà senza proprietà non è solo economicamente fragile, ma è simbolicamente amputata. Il padre che non può trasmettere nulla non è un padre, ma un funzionario. La famiglia senza patrimonio non è una cellula della società, ma un nodo di una rete. E la Chiesa che benedice questa diseredazione diventa, forse inconsapevolmente, un pastore non di pecore, ma di liquidità.

Chantal Delsol, in La Fin de la Chrétienté, parla del “ritorno del paganesimo” non come di una regressione, ma come di una nuova sacralità, radicata nella natura, nel sentimento e nell’immanenza. Il cristianesimo non è perseguitato. Viene bypassato. Non è più odiato, è irrilevante. I templi di oggi non sono chiese, ma centri commerciali, centri benessere e vette climatiche. I sacerdoti sono terapisti e influencer. Le liturgie sono digitali. E l’altare è l’io.

Ecco perché la rinascita cristiana, se deve significare qualcosa, non deve essere un dolce risveglio del calore pastorale. Deve essere un ritorno alla forma. Al canto gregoriano, al realismo metafisico, alla visibilità della gerarchia. Ai sacramenti che legano. Al peccato che condanna. Alla redenzione che salva. Come scrisse Roger Scruton poco prima della sua morte: “Il sacro entra nel nostro mondo non per confermarlo, ma per giudicarlo”. Il cristianesimo deve smettere di confermare il mondo. Deve ricominciare a giudicare.

Non con arroganza, ma con autorità.

Se c’è un fulcro da cui si può osservare la deriva metapolitica dell’Occidente – la sua trasmutazione dalla forma alla fluidità – non sta nel palazzo né nel foro, ma nell’intersezione tra altare e mondo. La Chiesa, nella sua duplice natura di corpo mistico e di attore storico, costituisce forse l’ultima istituzione sovrana capace di affermare la trascendenza in termini politici. Eppure, anche lei, sotto il peso del riformismo pastorale, appare sempre più incline a disarmare la propria forma a favore della fluidità relazionale.

Nel discorso di Ratisbona (2006), Joseph Ratzinger – allora Sommo Pontefice e teologo della forma – pronunciò un intervento non polemico, ma profetico. Il cuore di quel discorso, troppo spesso ridotto alla sua nota a piè di pagina sull’Islam, era in realtà una riaffermazione della gerarchia metafisica: una difesa del legame indissolubile tra la rivelazione divina e la razionalità umana. «Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio», affermava l’imperatore Manuele II Paleologo, «νοῦν \οῦκ ἐχόντι πράξει κατἀ τῳ λόγω θεοῦ φύσει ἐναντιοῦται». – una frase che Ratzinger invocava non come nostalgia bizantina, ma come necessità ontologica.

Ratzinger non cita la frase per nostalgia bizantina, ma per necessità ontologica. Se Dio non è logos, allora non è conoscibile, non è razionale, e dunque non è trasmissibile. La fede cristiana è fede nel Logos: «In principio era il Logos» (Ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ Λόγος). Il mondo non è un capriccio, ma una forma.

Il Dio della Bibbia è ragione creativa, logos che si rivela. È la pretesa metafisica su cui poggia l’intero edificio della civiltà occidentale. Questo, per Benedetto, non era negoziabile.

Il discorso di Ratisbona ha tracciato la progressiva deellenizzazione del cristianesimo attraverso tre momenti: l’abbandono riformatore della metafisica scolastica; la riduzione protestante liberale della cristologia a narrazione morale; e la contemporanea relativizzazione della dottrina a favore dell’inculturazione culturale. Il risultato di questo processo è una teologia spogliata dell’ontologia: ciò che rimane è solo la soggettività, una “fede” che si conforma all’utilità antropologica piuttosto che all’imposizione divina.

Contro questa corrente, Benedetto ha ribadito l’analogia entis – il ponte metafisico tra la ragione finita e l’essere infinito. Come definita nel Concilio Lateranense IV e difesa dal realismo scolastico, questa analogia non nega la dissomiglianza, ma rifiuta di sprofondare nel volontarismo o nel silenzio apofatico. Dio rimane Deus semper maior, ma non Deus absconditus. E così, il culto cristiano – λογικ λατρεία – rimane un atto di sottomissione razionale, non di preferenza emotiva.

Il pontificato di Ratzinger, in questa luce, non è stato conservatore nel senso volgare. Era contro-soggettivo. Rifiutava di cedere l’ordine della conoscenza allo stato d’animo dell’epoca. La sua critica alla modernità non era nostalgica ma forense: una civiltà che esclude le cause finali, nega le verità metafisiche e privilegia il consenso procedurale alla fine non sarà in grado di articolare – per non parlare di difendere – alcuna norma antropologica. La Chiesa, quindi, non poteva cercare rilevanza attraverso l’adattamento. Poteva ristabilire la coerenza solo attraverso la forma.

Questa restaurazione, tuttavia, risulterebbe intollerabile per una generazione ecclesiologicamente formata dall‘aggiornamento e catechizzata politicamente nel linguaggio della giustizia relazionale. Così, le sue dimissioni – un gesto romano e tragico – segnarono l’eclissi dell’atteggiamento dogmatico a favore dello spirito diplomatico.

Con l’elezione di Jorge Mario Bergoglio, la Sede di Pietro è entrata in quella che può essere giustamente definita la svolta antropologica del papato moderno. Radicato in un’ecclesiologia latinoamericana segnata da accenti liberazionisti e dal discernimento gesuita, il pontificato di Francesco I ha sempre privilegiato la prossimità rispetto alla proclamazione e l’incontro rispetto all’epistemologia.

Nella Evangelii gaudium (2013), l’esortazione programmatica del suo pontificato, Francesco propone una visione della Chiesa come “ospedale da campo”, chiamata non a definire ma a guarire. Questa ecclesiologia, pur essendo retoricamente cristologica, è fondamentalmente relazionale: la Chiesa non è più il custos veritatis, ma il facilitatore della fraternità. La dottrina è subordinata al dialogo, il canone al contesto.

Fratelli Tutti (2020) rappresenta la maturazione di questa visione: un testo magistrale che evita la verticalità metafisica a favore dell’orizzontalità morale. L’enfasi ripetuta sull’”amicizia sociale”, sulla “fratellanza umana” e sull’”apertura universale” non costituisce un’antropologia trinitaria, ma una riformulazione della Chiesa come vettore di convergenza morale, non più come polis escatologica. La ridefinizione della proprietà privata come “diritto naturale secondario” segnala non un ritorno ai Padri, ma un consenso ecclesiastico alle logiche livellatrici del redistributivismo globale.

In termini geopolitici, questa postura si traduce in una diplomazia dei gesti. Il Documento sulla Fratellanza Umana (Abu Dhabi, 2019), il Concordato tacito con Pechino (2018) e la preghiera interreligiosa a Ur (2021) non sono momenti isolati di tolleranza, ma sono elementi di un’antropologia strategica che riposiziona la Chiesa non come eccezione, ma come partecipe di un consenso morale planetario.

Il rischio, come abbiamo notato in La Chiesa e il patrimonio nella società liquida, è che questa antropologizzazione della Chiesa la separi dalle fonti della sua autorità di civiltà. Una Chiesa che parla con il linguaggio della fraternità, ma rifiuta di articolare una paternità metafisica, dissolve la sua capacità giuridica e teologica di legare. Senza il Logos, la Chiesa diventa non un segno di contraddizione, ma un facilitatore di consenso.

Non è un caso che Francesco rifiuti più volte il titolo di “Dottore d’Europa”, conferito al suo predecessore. L’economia simbolica di questo rifiuto segnala una rottura più profonda l‘abbandono della pretesa formativa della Chiesa sulla razionalità europea a favore di un universalismo post-cristiano. In un tale modello, il patrimonio diventa un ostacolo, la gerarchia uno scandalo e la memoria un ingombro.

L’ecclesiologia di Francesco è pastorale nella forma, ma diplomatica nei contenuti. Dà la priorità al dialogo rispetto alla definizione, ma il dialogo, quando si distacca dalle pretese di verità, diventa una rappresentazione liturgica del pluralismo. Ciò che rimane non è la spada di Pietro né la Parola del Logos, ma una diplomazia della presenza. Ma la presenza senza forma non è incarnazione. È l’assenza con la postura.

L’abbandono della forma da parte della Chiesa romana – e il suo conseguente disarmo nell’ambito dell’epistemologia della civiltà – non è rimasto senza opposizione. Se Roma si ritira nella circumambulazione pastorale e nell’umanitarismo universalistico, Mosca avanza – non solo territorialmente, ma metafisicamente. E lo fa attraverso la reincorporazione della teologia nell’ontologia statale.

La Chiesa ortodossa russa post-sovietica non si è accontentata di sopravvivere. È tornata come struttura grammaticale della teopolitica russa. Non più periferico o apologetico, ora parla con autorità escatologica.

Nella ricostituzione del Russkiy mir – il “mondo russo” come continuum di civiltà e spirituale – la Chiesa non è un’istituzione tra le tante. È l’anima stessa dell’estensione geopolitica.

Questo non è senza precedenti. Nel corso della storia, la guerra e la liturgia si sono spesso fuse, non come caso ma come necessità. Quando Roma fu saccheggiata nel 410, sant’Agostino compose il De Civitate Dei, non per sostenere una politica di pacifismo, ma per trasfigurare Roma in una polis metafisica. Quando l’Impero bizantino era sotto assedio, elaborava l’icona dell’Odigitria sulle sue pareti e invocava l’Inno Akathisto come liturgia militare. Quando Vienna fu quasi persa a causa dell’assedio ottomano nel 1683, lo stendardo papale fu innalzato a Kahlenberg sotto il comando di Jan Sobieski: Non nobis, Domine intonava mentre l’artiglieria ruggiva.

Il ritorno dell’Ortodossia nella Russia post-sovietica deve essere compreso in questo lignaggio. Non è un ornamento politico, né semplicemente un marcatore di identità nazionale. È la riattivazione di quella che si potrebbe chiamare sovranità liturgica, l’idea che il sacro debba ancora una volta strutturare il significato del sacrificio, la memoria dei morti e la legittimità della guerra. Per gli ordini liberali moderni, la guerra è un’anomalia. Per gli ordini teologici, la guerra è rivelatrice.

Questo è stato chiaramente messo in atto nella costruzione e nella consacrazione della Cattedrale della Resurrezione di Cristo, colloquialmente nota come Cattedrale delle Forze Armate, completata nel 2020. La sua architettura sintetizza armi, iconografia e memoria nazionale: i carri armati nazisti fusi sono stati utilizzati per la pavimentazione; i suoi passi salgono in multipli di 1.418 – l’anno della battaglia di Kulikovo. L’iconostasi è affiancata da immagini di San Giorgio e di moderni paracadutisti. Non è solo una casa di preghiera. Si tratta di un’anafora strategica, di una riscrittura eucaristica dello Stato russo.

Questo ritorno della forma sacra in tempo di guerra non è un’invenzione russa. È un ritorno antropologico universale. Quando gli dèi vengono ignorati in pace, vengono invocati nel fuoco. L’ordine liberale credeva di aver abolito la questione teologica. Non era così. L’aveva semplicemente rimpiazzata. Come ha notoriamente sostenuto Carl Schmitt, “Tutti i concetti politici significativi dello stato moderno sono concetti teologici secolarizzati. “La volontà di potenza non è mai abbastanza. Richiede l’olio dell’unzione.

La rinascita dell’Ortodossia, quindi, non è reazionaria. È coerente e, per molti versi, l’unica forma di coerenza cristiana che rimane operativa a livello di civiltà. La sua antropologia teologica è verticale, non orizzontale. Parla di gerarchia, non di consenso. La sua ecclesiologia è escatologica, non sinodale. Battezza il territorio, santifica la sofferenza e lega l’identità al tempo sacro.

Confrontate questo con il modo di governo occidentale, in cui il sacro è stato esiliato dalla polis e relegato all’emozione privata.

L’Occidente non sa più cosa fare con i morti. Non ha un calendario per la memoria, un altare per il sacrificio, un sacerdozio per il giudizio. Possiede la tecnologia, ma manca di telos. Governa con la comodità e muore senza liturgia.

Questo è il motivo per cui, quando la guerra arriva – e la guerra è arrivata – l’ordine occidentale inciampa. Può mobilitare la forza, ma non il significato. Può stanziare budget, ma non vincolare le coscienze. Non è solo che manca il morale. Manca di escatologia.

L’Ortodossia, al contrario, reinstalla la logica della trascendenza all’interno della geopolitica. Rivendica il cosmo come liturgico, il confine come sacro e il martirio come vocazione. I suoi pericoli sono reali: il cesaropapismo, l’etnofiletismo e la manipolazione spirituale. Ma la sua forza sta nel fatto che si è ricordata di ciò che Roma sta dimenticando: che la civiltà non è sostenibile senza verticalità, e che solo ciò che può essere sacrificato può essere salvato.

In questo senso, il rientro dell’Ortodossia nella storia segna non un ritorno al passato, ma una sfida al futuro. Non si pone come una contro-modernità, ma come un promemoria del fatto che tutto il potere è teologico – e che dove Roma rinuncia a questa verità, Bisanzio la rivendica.

(*) Economista

Related posts

Busta con due bossoli recapitata al Senato a Matteo Renzi

Redazione Ore 12

Suez, la coda di navi nel Canale non si è esaurita. Sono 206 quelle ancora in attesa

Redazione Ore 12

  Ore 7.07, una forte scossa di terremoto (5.7) sveglia l’Italia. Epicentro nell’Adriatico di fronte alle Marche

Redazione Ore 12