Primo piano

L’affaire Mattei. Di verità si può anche morire?/4

di Otello Lupacchini*

Sino alla fine della guerra di Liberazione, non furono molti i contatti fra Mattei e Cefis: per non entrare in conflitto con il secondo, che mostra chiaramente di non gradire interferenze nel suo operato, quella di Bergamo è zona che il primo evita con cura. Erano due caratteri temprati dalla guerra: tanto Cefis era freddo e determinato quanto Mattei era impulsivo e passionale; ma condividevano entrambi un anticomunismo viscerale, che portò il secondo a fondare la Federazione Italiana Volontari della Libertà, sorta di «quarta colonna contro il comunismo», col duplice compito di «sorvegliare nelle fabbriche ogni nucleo promotore della disobbedienza, delle minacce contro l’efficienza e la produttività, e ostacolare la scalata comunista ai posti e alle posizioni di comando e di responsabilità»; e il primo, memore dei suoi antichi legami con gli americani in Val d’Ossola, a iniziare, in tempi di Guerra fredda, a coltivare rapporti con l’oltranzismo atlantico, fino ad alimentare veri e propri sogni autoritari, nella seconda metà degli anni Settanta.

Nominato, con l’avallo del capo dell’amministrazione militare alleata Charles Poletti, commissario straordinario dell’Agip, l’ente per la lavorazione e la distribuzione dei petroli, Enrico Mattei s’era insediato il 12 maggio 1945, con le macerie della guerra ancora fumanti. Il suo compito era quello di liquidare le attività d’un’azienda di Stato, considerata ormai un carrozzone inutile: aveva già scavato trecentocinquanta pozzi senza mai trovare nulla. E, poi, c’era una direttiva dei colonnelli Usa Henderson e King, che imponeva il passaggio immediato della distribuzione dei prodotti Agip al Comitato Italiano Petroli (Cip), ente in mano agli Alleati.

Convinto che le smobilitazioni volute dagli americani fossero in contrasto con gli interessi nazionali, Enrico Mattei fece tutto il contrario, intenzionato com’era a garantire un polo energetico nazionale, in grado di assicurare lo sviluppo della piccola e media impresa a prezzi più bassi rispetto a quelli degli oligopoli internazionali, a un Paese che doveva essere ricostruito, in cui il carbone scarseggiava e non c’era traccia di altre materie prime. Per conseguire l’obiettivo, Mattei aveva avuto bisogno, però, di alleanze politiche, di rapporti forti nel governo, di abili collaboratori pronti a tutto. Ed è a questo punto che s’era ricordato del combattente «Alberto», cioè di Eugenio Cefis, il partigiano freddo, glaciale, lesto di fucile, amico degli americani, ex ufficiale del Sim (Servizio informazioni militare), al quale aveva, dunque, offerto di entrare a lavorare con lui all’Agip.

Sotto la spinta propulsiva di Enrico Mattei e del suo stafftecnico, l’Agip aveva ottenuto risultati insperati ed eccezionali: un giacimento di gas naturale fu scoperto a Ripalta; un piccolo giacimento di petrolio a Cortemaggiore. Questi giacimenti apparivano senz’altro inadeguati a soddisfare il fabbisogno energetico nazionale, tuttavia Mattei, mettendo in campo la sua innata capacità comunicativa, ne aveva enfatizzato a dismisura la portata economica effettiva, così da alimentare il mito di una rinascita economica italiana: le azioni dell’Agip erano salite vertiginosamente, come pure la popolarità e il carisma politico dello stesso Mattei, che, nel 1953, diede impulso alla costituzione dell’Eni, super ente deputato a coordinare tutte le attività riguardanti gli idrocarburi e a sovrintendere ad esse.

Resosi, peraltro, immediatamente conto dell’impossibilità di reperire nel sottosuolo italiano il petrolio necessario a soddisfare il fabbisogno energetico del Paese, Mattei aveva deciso anche di uscire dall’ambito nazionale e puntare tutto sul commercio diretto con i Paesi produttori di greggio, andando a contrastare su scala mondiale gli interessi economici del gigantesco cartello che raggruppava le sette più potenti compagnie petrolifere del mondo, tutte americane e britanniche, che detenevano il monopolio di fatto del mercato internazionale. A tal fine, aveva dovuto fare uso sia della sua proverbiale capacità comunicativa per assicurarsi l’appoggio e la benevolenza di parte dell’opinione pubblica nazionale, sia di tutta la sua abilità diplomatica nell’intavolare difficili trattative con i Paesi arabi, per la ratifica di accordi commerciali vantaggiosi e per l’Eni e per i Paesi produttori.

La grande intuizione del presidente dell’Eni era stata quella di promuovere un dialogo paritario ed equilibrato con i Paesi in via di sviluppo, che continuavano a subire il giogo del passato coloniale. Di qui il tentato accordo con lo Scià di Persia e i tentativi con il Marocco, la Libia, e l’Algeria dove, sostenendo il Fronte di Liberazione Nazionale durante la guerra franco-algerina, assicurò una corsia preferenziale all’Eni presso il futuro governo algerino. Gli accordi commerciali che Mattei promuoveva erano di portata rivoluzionaria e arrecavano enormi vantaggi ai Paesi produttori di greggio: il 75% dei profitti contro il 50% offerto dal cartello petrolifero mondiale, e, in aggiunta, la promessa di utilizzo e qualificazione della forza-lavoro locale.

Il fatto che si ponessero così le basi per un possibile sviluppo industriale delle ex colonie europee, ma anche uno sviluppo industriale equo ed autonomo dal controllo delle grandi potenze mondiali era stato il motivo della crescente ostilità che la politica «neoatlantista» di Mattei attirava su di sé, da parte di ambienti legati non solo alle grandi compagnie petrolifere, ma anche ai governi di Inghilterra e Usa, che temevano i risvolti tanto politici quanto economici della via inaugurata dal presidente dell’Eni.

Ostilità, per vero, più di Londra che di Washington: erano i servizi segreti di sua maestà a lavorare per rovesciare il governo libico, che avevano raggiunto un accordo di massima con Mattei. A questo riguardo, peraltro, dalle carte conservate negli archivi londinesi di Kew Gardens, emerge con chiarezza che è Washington a ordire piani eversivi per l’Italia, come si è sempre creduto, ma soprattutto Londra, che non vuole perdere il controllo delle sue rotte petrolifere, tanto da contrastare la politica filoaraba e terzomondista di Mattei, ma anche di Gronchi, Moro e Fanfani. Una guerra devastante, insomma, mai interrotta. E se il governo inglese, come emerge da un documento del 1943, enunciava: «I nostri piani prevedono la conquista assoluta dell’Italia» e se, sempre nel novembre 1943, D’Arcy Osborne, ambasciatore britannico presso la Santa sede, annotava: «I principi e le regole  della democrazia sono estranei alla natura del popolo italiano, che non s’interessa di politica (…) la gran massa degli italiani è individualista (…) Mussolini aveva ragione a dire che gli italiani sono sempre stati povera gente»; lo stesso Winston Churchill, nel novembre 1945, dichiarava al delegato di Pio XII: «L’unica cosa che mancherà all’Italia è una totale libertà politica». Tornando a Mattei, in un rapporto confidenziale del Foreign Office britannico datato 19 luglio 1962, si legge: «Il Matteismo è potenzialmente molto pericoloso per tutte le compagnie petrolifere che operano nell’ambito della libera concorrenza. Non è un’esagerazione asserire che il successo della politica Matteista rappresenta la distruzione del libero sistema petrolifero in tutto il mondo». E se in un rapporto confidenziale del Foreign Office britannico datato 19 luglio 1962, si legge: «Il Matteismo è potenzialmente molto pericoloso per tutte le compagnie petrolifere che operano nell’ambito della libera concorrenza. Non è un’esagerazione asserire che il successo della politica Matteista rappresenta la distruzione del libero sistema petrolifero in tutto il mondo»; in un documento del ministero dell’Energia britannico 15 agosto 1962, si ribadisce che «L’Eni sta diventando una crescente minaccia per gli interessi britannici».

*Giusfilosofo

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