Cronaca

L’affaire Mattei e il delitto Pasolini. Di verità si può anche morire?/16

di Otello Lupacchini*

Non può essere elusa, a questo punto, la domanda se Pier Paolo Pasolini possa forse essere morto anche lui « di troppa verità ».

Da parte, innanzi tutto, degli amici, e segnatamente da Laura Betti e Antonietta Macciocchi, ma anche da altri, convinti di un complotto politico, legato alle violente prese di posizione dello stesso Pasolini sugli attentati che insanguinavano l’Italia  e sulla corruzione della Democrazia cristiana, in cui non si faceva mistero di esigere un processo a carico di ministri e politici . Questa ipotesi è sostenuta anche da Dario Bellezza , che, tuttavia, l’aveva inizialmente contrastata . Argomenti a contrariis di rara eleganza, blaterati dal solito critico acuminato che, caritatevolmente non nomino, del tipo « Che significa io so, ma non ho le prove. Cioè: io so, pur senza sapere un cazzo », con i quali si pretende di confutare le tesi « complottistiche » sull’assassinio dell’intellettuale, le cui agghiaccianti intuizioni vengono trattate alla stregua di uno « Slogan di grande successo in un Paese poco incline alle verifiche e molto alla fede superficiale », non meriterebbero neppure d’essere presi in considerazione. Ma lo faccio, semplicemente per stigmatizzare, ancora una volta, l’arroganza di questi idiots savants, i quali neppure vengono sfiorati dall’idea che i cosiddetti « lampi intuitivi » sottintendono pur sempre un raffinato processo dimostrativo, per quanto rapido – ma si sa che la maggiore o minore rapidità di giudizio dipende dalla maggiore o minore vivacità d’intelligenza di chi quel giudizio esprime –, che muove dal noto verso l’ignoto, con la mediazione di massime d’esperienza, esatte dall’id quod plerumque accidit. Eppure, fu lo stesso Pasolini a spiegare: « Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il “progetto di romanzo” sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il 1968 non è poi così difficile », e ad aggiungere: « Tale verità – lo si sente con assoluta precisione – sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio […]. Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi.  Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi. A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale » .

Marco Tullio Giordana  Gianni D’Elia , Giuseppe Bianco e Sandra Rizza  hanno ipotizzato un legame tra l’assassinio di Pier Paolo Pasolini e la redazione del romanzo Petrolio (nella foto), che, pubblicato soltanto nel 1992 dall’editore Einaudi, rivela come Pasolini si stesse interessando alla morte di Enrico Mattei: in possesso di documenti utilizzati nel romanzo, lo scrittore collocava Eugenio Cefis, dissimulato sotto il nome di Troya nel romanzo, alla testa del complotto culminato nell’uccisione del presidente dell’Eni. Al riguardo, va evidenziato, tuttavia, che per redigere il romanzo Pasolini disponeva di notizie, che colavano da fonti già note: dispacci di agenzia del 1971 e un saggio sugli scandali dell’Eni, pubblicato nel 1972, ma ben presto sparito dalla  circolazione, di Giorgio Steinmetz , nome de plume dietro al quale si celava, forse, il giornalista Corrado Regozzino, proprietario di un’agenzia di informazione finanziata da Graziano Verzotto. Nel libro di Steinmetz si formulava qualcosa di più di un’ipotesi sull’incidente di Bascapè: a sabotare l’aereo sarebbe stato proprio Cefis, desideroso di prendere il posto occupato dall’ingombrante e oramai popolarissimo Mattei. Era una versione che, secondo molti, faceva comodo soprattutto a Verzotto, il vero dominusdi tutta l’affaire.

Secondo Sergio Citti, cineasta il cui nome è legato al sodalizio artistico con Pier Paolo Pasolini, fratello dell’attore Franco Citti, alcune « pizze » del film Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), ultimo film scritto e diretto dal regista friulano, e parzialmente ispirato al romanzo del marchese Donatien Alphonse François De Sade, Le centoventi giornate di Sodoma, sarebbero state rubate e ne sarebbe stata proposta la restituzione dietro pagamento di un riscatto. Il 1° novembre 1975, il film, considerato il più controverso di Pier Paolo Pasolini, oltre che fra i più scioccanti della storia del cinema, era stato già montato e doppiato, tanto che il regista, di ritorno da Stoccolma, s’era fermato a Parigi, per supervisionare il doppiaggio francese. Ignorando quale fosse il contenuto delle « pizze » rubate è difficile comprendere quale necessità di recuperarle avesse avuto Pasolini, potendo anche essersi trattato di spezzoni di pellicola abbandonati. È possibile, tuttavia, che delle canaglie fossero state ingaggiate da nemici di Pasolini per pestarlo ed intimidirlo. Sergio Citti, infatti, dopo l’omicidio raccolse la testimonianza di un pescatore che avrebbe visto due automobili sul luogo del crimine, ma nessun elemento per l’identificazione di sicari e mandanti .

Queste ipotesi saranno magari opinabili e, comunque, tutte da verificare. Sono anche disposto a concedere che sia senz’altro vero – a proposito del contenuto delle violente prese di posizione dello scrittore, trasudanti disperazione politica di fronte a un’Italia corrotta, nella quale tutti i poteri concorrono ad acculturare il paese, ormai rimbecillito, al puro consumismo, di cui agli articoli apparsi sul «Corriere della Sera» e «Il Mondo», o ai suoi poemi, da Transumanare organizzara certe pagine di Divina mimesise al progetto di Petrolio– che Pier Paolo Pasolini non possedeva che il potere della sua parola, ch’era parola di poeta; e pure che i poeti sono dannosi per le dittature che, fondate sul monopolio della verità e dunque della parola, non tollerano alcun relativismo, alcuna critica. Son disposto a concedere, insomma, che l’arte e la poesia siano dannose per le dittature perché relativizzano il campo dell’espressione, mettono in discussione l’assolutismo del totalitarismo e propongono un punto di vista diverso, altri criteri e norme. Non sono, tuttavia, disposto a concedere che un intellettuale, in una democrazia, non possa mai rappresentare un tale danno, per essere le sue opinioni rilanciate dai media, da doversene disporre l’esecuzione, senza prima aver verificato se sia anche vero che l’Italia del 1975 fosse un paese democratico, in cui la parola non era il nemico numero uno, sebbene espressione di un’intelligenza fuori dal comune e di un artista perturbatore. La risposta incondizionatamente affermativa a questa domanda, infatti, non terrebbe in alcun conto le peculiarità del sistema politico, nell’Italia degli anni Settanta del Novecento, su cui occorre, dunque, concentrare il fuoco dell’attenzione.

 

*Giusfilosofo

 

16/Segue

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