Esteri

L’Italia fuori dalla nuova Via della Seta: pro e contro di questa scelta

 

L’Italia ha annunciato l’uscita dalla Belt and Road Initiative (Bri) della Cina, più comunemente nota come la Nuova Via della seta cinese. La comunicazione, trasmessa dalla presidente Giorgia Meloni al governo di Pechino, arriva a quattro anni dall’adesione con una stretta di mano dell’allora premier Giuseppe Conte, che figurò così come l’unico tra i Paesi del G7 a voler entrare a far parte del progetto strategico, lanciato dalla Cina nel 2013, con cui Pechino sogna di tornare a collegare l’Asia all’Europa, sulla falsa riga dell’antica via della seta, che dominò i traffici mondiali per quasi duemila anni, tra il secondo secolo avanti Cristo e la metà del 1400.

Dieci anni dopo hanno aderito 150 Paesi, tra cui anche molti dell’Unione europea, per un fatturato complessivo di 19 miliardi di dollari, secondo il portale specializzato Silk Road Briefing. Ammonta invece a 380 miliardi il fatturato derivante dagli investimenti bilaterali.

Ma in cosa consiste esattamente la Belt and Road Initiative?

Gli analisti lo definiscono come un gigantesco e ambizioso progetto economico-commerciale che, a partire da consistenti investimenti alle infrastrutture, punta a mettere in rete porti, strade, aeroporti e ferrovie dall’Asia all’Europa, passando per il medio oriente e arrivando a coinvolgere anche l’Africa, dove si parla sempre di più mandarino. Sono oltre duemila i progetti già attuati per alimentare una rete di enormi flussi di merci, investimenti e servizi che vede la Cina al centro.

Viene infatti considerato il capolavoro politico del presidente Xi Jinping, nonché il punto nodale della sua strategia estera, in grado di coinvolgere centinaia di soggetti tra Stati, organismi internazionali e soprattutto aziende e istituti finanziari. Si prevede che il 60% della popolazione mondiale potrebbe essere così coinvolta.

La Nuova Via della Seta si articola su più direttrici, tra cui quella più rilevante sembra essere il Corridoio economico sino-pakistano (China-Pakistan Economic Corridor, Cpec), che nel 2015 il presidente Xi definì come “il progetto di punta” del Bri. Il Corridoio, tra le altre cose, vuole sfruttare le risorse energetiche del Pakistan – anche quelle rinnovabili – a partire da 60 miliardi di dollari di investimenti.
La via marittima invece arriverà a connettere la Cina al Sud-est asiatico, all’Europa occidentale, all’Africa e alle Americhe, valorizzando o costruendo nuovi porti in Paesi come Sri Lanka, Gibuti e Dubai fino al Perù, passando per la Grecia: qui nel 2016 la cinese Cosco Shipping Group ha rilevato il 67% del Porto del Pireo, che da allora è diventato il principale hub della regione.

Proprio l’enorme potere politico, oltre che economico, che la Bri inevitabilmente conferisce a Pechino, ha messo in allarme molti Paesi, tra cui in testa figurano gli Stati Uniti, il principale competitor economico-politico di Pechino. Ma il progetto non preoccupa solo i governi: da un lato, alcuni analisti si interrogano sull’impatto sui Paesi con economie ancora fragili, poco diversidifcate o troppo indebitate, mentre gli ambientalisti alzano l’allarme per gli effetti che questa corsa al commercio globale potrà avere sugli ecosistemi e l’inquinamento, in una fase in cui crescono gli appelli a ridurre la produzione di plastica, carne e materie prime, a consumare maggiormente “prodotti di prossimità”, e ad abbandonare i combustibili fossili in favore delle rinnovabili, per contenere l’aumento delle temperature e quindi i cambiamenti climatici. Inoltre, sono nate campagne e iniziative della società civile per dare voce anche alle comunità locali, che si teme restino escluse da attività che potrebbero avere un impatto irreversibile su territori e tessuti socio-culturali delicati

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