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Roma, visitabili per la prima volta gli ambienti dietro il Mosè di Michelangelo

di Sara Valerio

 

 

Da gennaio 2024 si potranno visitare gli ambienti dietro il Mosè di Michelangelo. Dalle due porticine posizionate ai lati del celebre monumento funebre di Giulio II, nella chiesa San Pietro in Vincoli, chiuse da sempre al pubblico, si potrà ora accedere agli ambienti dell’anti-sacrestia e sacrestia, finalmente restaurati, che custodiscono affreschi, i resti di una torre medievale, gli straordinari pavimenti del XV secolo fatti di marmi policromi romani e i dipinti dei collaboratori di Raffaello, tra cui Polidoro da Caravaggio.

La magnifica statua del Mosè, scolpita da Michelangelo per il monumento sepolcrale di papa Giulio II della Rovere (1503-1513), era destinata inizialmente nella Basilica vaticana, ma fu collocata poi nella basilica di San Pietro in Vincoli. L’artista fu incaricato per il progetto del sepolcro da Giulio II nel 1505, ma l’opera fu iniziata solo nel 1544 e realizzata, in accordo con gli eredi del Papa, in una versione ridotta; da una pianta quadrata con 40 statue, il progetto finale fu ridimensionato ad un monumento addossato a una parete con sette statue di cui solo tre di Michelangelo.

Ora sarà possibile accedere anche agli spazi retrostanti e visitare l’anti-sacrestia e la vecchia sacrestia che per secoli hanno avuto la funzione di collegare la basilica al convento ad essa annesso, oggi non più esistente perché trasformato, dopo l’Unità d’Italia, nella facoltà di Ingegneria dell’università La Sapienza.

Grazie a recenti interventi di restauro della Soprintendenza Speciale di Roma, sono tornati alla loro originaria bellezza i preziosi pavimenti in marmi policromi, le architravi con stemmi del papa della Rovere, una preziosa decorazione pittorica, con specchiature lapidee, inserti marmorei, mosaici e, infine, arredi lignei. Inoltre, l’anti sacrestia ospita due tele di soggetto sacro, una delle quali di Pier Francesco Mola, restaurate e presentate per la prima volta.

Entrambi gli ambienti sono testimonianze di un complicato intreccio di storia della cultura, della religione e dell’arte, in un periodo compreso tra la fine del 1400 secolo e l’inizio del 1500. Dall’anti-sacrestia, tramite una piccola scala in legno si accede ora a quel che resta di un’antica torre medievale, e in tutti gli ambienti si calpestano straordinari pavimenti, di epoche diverse ma costruiti in parte con marmi policromi, provenienti, quasi certamente, da alcune Domus attualmente inaccessibili ma che ancora oggi si trovano al di sotto della basilica.

In particolare la sacrestia è un gioiello del primo cinquecento, una stanza riccamente decorata, a pianta quadrata dal soffitto a lunette, in cui si alternano elementi di tradizione quattrocentesca con motivi derivati dalle invenzioni di Raffaello, in quel momento vivo e operante a Roma (morirà nel 1520). Gli affreschi sopra le specchiature, su tre dei quattro lati, sono attribuiti alla mano di Polidoro da Caravaggio, uno dei pittori che con l’Urbinate aveva collaborato alla realizzazione delle Logge in Vaticano.

Un’iscrizione in latino ricorda il significato di questo ambiente, che al momento della fondazione, non era ancora una sacrestia bensì la “Stanza del tesoro”, dove si custodivano le sacre catene di Pietro composte, allora come ora, da due spezzoni saldati tra loro (per miracolo, secondo la tradizione): uno a testimonianza del carcere romano del santo, l’altro a testimonianza della prigionia in Terra Santa (ora si trovano presso l’altare maggiore). Ed è qui che si trova la teca (vuota), che a lungo custodì la sacra reliquia; costruita nel ‘700, è chiusa da uno sportello metallico e collocata al centro della parete di fondo, posizione ideale all’adorazione.

Le visite in calendario sono previste a partire da gennaio 2024, per massimo dieci persone, e sono prenotabili sul sito soprintendenzaspecialeroma.it.   Assai suggestiva, infine, l’ascesa — grazie a una scaletta di legno costruita in occasione del restauro — in quel che resta della scomparsa torre medievale e nell’attigua cantoria ricavata nel retro. Qui, su un muro preesistente all’intervento michelangiolesco, oltre al lacerto di un dipinto raf­figurante un Cristo pantocratore, si osservano anche schizzi a sanguigna in cui è più volte tratteggiata la forma esatta dell’arcone progettato dal Buonarroti proprio lì di fronte. Che quei segni siano di mano del genio nessuno può dirlo e nessuno lo dice. Ma nessuno, nemmeno, lo esclude.

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