Politica

‘All eyes on Rafah’, ma i partiti fanno campagna come se le due guerre non esistessero

 

di Fabiana D’Eramo

Dieci giorni alle elezioni europee. Poco più di ventiquattro ore dai raid israeliani che stanno accumulando vittime nei campi profughi a Rafah, l’ultima città del sud della Striscia su cui da settimane si concentrano le operazioni dell’Idf. Nel frattempo Vladimir Putin commenta le truppe occidentali a Kiev: “la guerra globale si avvicina”. Un avvertimento alla Nato.

Dall’Italia, tutti i leader dei maggiori partiti confermano di rendersi conto di essere in mezzo a due crisi globali. La situazione è seria, la conta dei morti è tragica, bisogna fermare la follia, concentrare gli sforzi sulla risoluzione dei conflitti. E perché allora non astenersi dal voto all’Onu quando c’è da esprimesi sul riconoscimento dello Stato della Palestina. Giorgia Meloni si è candidata alle europee per promuovere un’idea di Europa forte che sappia porre fine ai problemi che attanagliano la nostra società – posizione di cui, forse, non sono al corrente i suoi alleati della Lega, impegnati nella serrata campagna contro il tappo attaccato alla bottiglia a suon di “Più Italia, meno Europa”. Per la premier no, è diverso: “non possiamo permetterci un’Europa debole”. Per bocca di Antonio Tajani trapela che il governo è favorevole “a lavorare alla nascita di uno Stato palestinese che riconosca Israele e sia riconosciuto da Israele”, ma quando il presidente del Consiglio ha incontrato il premier palestinese Mohammed Mustafa a Roma non si è parlato di alcuno sviluppo verso una legittimazione dello stato da parte italiana.

Perché non perdersi invece in simpatici siparietti, perché non approfittare dell’inaugurazione di un centro sportivo per la riqualificazione di Caivano per togliersi la soddisfazione di dire a Vincenzo De Luca: “Presidente, sono quella stronza della Meloni. Come sta?”. Lo saluta, gli stringe la mano, e il governatore campano del Pd risponde: “Bene, benvenuta”, dopo averla apostrofata col medesimo epiteto a febbraio. Da quel momento, frecciatine a distanza. D’accordo, e perché no, occhio per occhio. Dopo tutto, chissene importa. È il motto meloniano per eccellenza. Lo ha detto a In mezz’ora,“chissene importa” – se anche, per esempio, non passasse il referendum sul premierato, non si dimette, non importa. L’indolenza come collante, approccio politico e filosofia di vita, specchio di una sbruffonaggine che fa alzare le spalle e tirare dritto.

Ma dal governo all’opposizione, nessuno escluso, perché non battibeccare, non perdersi in botta e risposta sterili e ridondanti, perché non lasciare alla retorica il compito di riempirsi di progetti di pace mentre si preferisce occuparsi di screzi da politica interna. Perché non portare avanti la propria battaglia contro il ponte sullo Stretto di Messina in piena campagna elettorale per le europee. Perché non avrebbe dovuto, Elly Schlein, sbarcare in Sicilia col traghetto, in venti minuti, per dimostrare che la maxi opera di Matteo Salvini è “anacronistica, inutile e dannosa”, mentre il resto del suo partito con le altre opposizioni è impegnato a fare pressing su Meloni affinchè si presenti in Aula così che anche l’Italia, dopo Norvegia, Spagna e Irlanda, riconosca lo stato palestinese. La richiesta del Partito Democratico, del Movimento Cinque Stelle e di Alleanza Verdi e Sinistra è parsa come un’unica voce, quando gli esponenti pentastellati hanno esposto la bandiera della pace e alcune della Palestina ma Anna Ascani, la Vicepresidente della Camera Pd, li ha ammoniti poiché “esporre simboli di ogni genere” in Aula non è consentito.

Ma anche Giuseppe Conte – che pure con i suoi ha presentato la mozione per il riconoscimento da parte del governo italiano dello Stato palestinese entro i confini del 1967 – perché non dovrebbe continuare a sventolare la bandiera di un’Europa che “crede nella pace” mentre si chiede al governo e a Bruxelles lo stop all’invio delle armi a Kiev e all’Ucraina di mettersi al tavolo a negoziare con un assassino. E perché non andare in tv da Nicola Porro a comunicare agli elettori una “sorpresa” a pochi giorni dalle elezioni – “In Europa saremo in un gruppo dell’area progressista”, senza dire quale – tradendo un’arresa, la necessità di pattuire, l’inevitabile presa di coscienza che a forza di andare “oltre destra e sinistra” si finisce in un equivoco apolide. Da qualche parte si dovrà stare. Per un po’, si è pensato, con Schlein. Ma anche lì, vaghi progetti di alleanza senza una visione d’insieme sono crollati sotto la spinta di ripetitivi battibecchi.

Insomma perché non perdersi qui e là, a discutere di cavilli, a fare e disfare alleanze nel Palazzo, mentre c’è un massacro di civili in corso e dei bambini vengono bruciati vivi nel nel mondo vero?

aggiornamento All eyes on Rafah ore 15.57

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