Politica

  Dal no a Kallas all’inchiesta di Fanpage, Meloni è divisa tra Tajani e Salvini

di Fabiana D’Eramo

Quando si lamenta di essere finita in fondo all’aula, Giorgia Meloni non realizza di aver deciso lei stessa di entrare in Europa per sedersi all’ultimo banco. Non ha importanza che abbia passato la campagna elettorale per l’europarlamento e quasi due anni di mandato di governo a spingere per guadagnarsi un posto in prima fila. Perché è comprensibile l’astensione su Ursula von der Leyen: la premier mantiene un’apertura verso la presidente (bis) della Commissione per lavorare affinchè Roma abbia ancora un ruolo di rilevanza nella complicata partita europea. Ancor più comprensibile votare contro l’ex premier portoghese Antonio Costa, ora nel ruolo di presidente del Consiglio europeo, perché socialista e dunque ontologicamente avversario. Ma votare contro la premier estone Kaja Kallas, nuovo Alto Rappresentante per la Politica Estera e di sicurezza, che è l’incarnazione della resistenza a Putin, esponente della famiglia politica liberale dalle solide credenziali anti-russe, è una decisione che lascia seri dubbi su quanto predicato da Meloni fin qui.

Intanto l’Italia si ritrova, per la prima volta, fuori dalle alleanze europee e dal consenso ai vertici europei. Sul podio ci sono le famiglie politiche tradizionali – popolari, socialisti e liberali; nelle trattative pre-Consiglio si sentiranno le voci di Macron, di Scholz, di Sanchez o Tusk, non di Meloni, che si è autoesclusa sulle nomine portando di fatto a marginalizzare il paese. Cosa farà, sola con l’Ungheria?

A detta sua, la proposta formulata dalla triade europea non rispettava le indicazioni che sono arrivate dai cittadini con le elezioni. Per Antonio Tajani l’Italia non rischia l’isolamento perché la partita non è ancora chiusa, Salvini invece sente “puzza di colpo di stato”. Sarà anche l’equilibrismo tra i due vice che ha portato la premier all’astensione. Se il forzista, che del Ppe è una delle figure più note, cerca ancorsa di mediare, il leghista è già partito all’attacco dei “burocrati europei” che giocano con la pelle dei cittadini. “Quelli che hanno perso voti”, ha scritto sui social, “ripropongono gli stessi volti. È inaccettabile.”

I numeri due di Giorgia Meloni la tirano da una parte e dall’altra, dentro e fuori gli affari di politica interna, e lei deve destreggiarsi per non cadere né di là né di qua. Salvini ama andare a braccetto con Marine Len, Tajani non gradisce la compagnia degli estremisti e ci tiene a rimarcare che quello del leghista “non è il suo linguaggio”. Euroscettico il primo, europeista il secondo, a Palazzo Chigi hanno uffici confinanti ma è una buona cosa che entrambi li frequentino poco. È una contraddizione che siano proprio loro, insieme, ad accompagnare Meloni da un lato e dall’altro. Soprattutto se Forza Italia inizia a sentirsi più a suo agio con la sinistra che con la destra. L’ultimo intervento di Marina Berlusconi sui diritti civili mostra che, talvolta, i forzisti hanno prese di posizione troppo moderate per finire nello stesso piatto di Lega e Fratelli d’Italia.

Discorso che conduce all’inchiesta di Fanpage, ai giovani meloniani che, sorpresa, sono fascisti, a Giovanni Donzelli che si lamenta che la giornalista infiltrata in Gioventù Nazionale abbia insegnato ai ragazzi l’infamia del tradimento, a Meloni che accusa che infliltrarsi nelle riunioni dei partiti sia da regime anche quando, in democrazia, è diritto dell’opinione pubblica conoscere l’organizzazione, le finalità e le idee di un partito. C’è un filo che lega questa storia al ruolo d’opposizione che Meloni ha scelto di avere in Europa. È il fatto che Fratelli d’Italia deve di continuo fare i conti con i miti, le immagini, gli slogan, le figure iconiche, la memoria e gli alleati che costituiscono l’immaginario politico del suo partito ed elettorato, e deve pendere una volta verso l’irrequietezza di Salvini e un’altra verso la moderazione di Tajani, di tanto prendendo le distanze dallo status quo come un eterno movimento politico d’opposizione, salvo poi ricordarsi di re-istituzionalizzarsi essendo, di fatto, un’istituzione. È così che alza la voce, dall’ultimo banco, per farsi sentire dai compagni delle prime file con i quali poco o niente condivide eccetto l’aula, quella dell’europarlamento.

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