Economia e Lavoro

Il mercato del lavoro in Italia: la grande sfida

di Gianluca Maddaloni

 

Gli Stati Uniti lo hanno chiamato Great Resignation o Big Quit: il numero crescente di dimissioni , spesso senza proposte in tasca, per la ricerca di impieghi più appaganti. La pandemia ha radicalmente cambiato il mondo lavorativo, portando milioni di persone a riconsiderare le  priorità e abbandonare la propria posizione. Uno scenario che in molti hanno definito “Great Resignation”, ovvero “Grandi Dimissioni”: sono soprattutto i giovani under 30, appartenenti alla Generazione Z, e gli occupati in settori ad alto tasso di stress a decidere di voltare pagina. Non soltanto coloro che comprensibilmente cambiano lavoro per posizioni più qualificate, ma anche lavoratori che, pur senza prospettive concrete, si licenziano lo stesso per riconciliarsi con i propri affetti e le proprie passioni. Un fenomeno dilagante anche in Italia dove, secondo i dati più recenti del Ministero del Lavoro, le dimissioni volontarie sono aumentate di circa il 24 % nel 2022.

Il fenomeno appare contraddittorio se si pensa che le persone in cerca di lavoro in Italia sono il 7,8% . Secondo un recente studio della CISL Lombardia circa 2 milioni di italiani hanno lasciato il posto negli ultimi due anni. L’impianto del lavoro tradizionale basato quasi esclusivamente sulla produttività inizia a scricchiolare. Le principali ragioni sono un eccessivo stress da lavoro correlato (36%), un clima aziendale tossico (34,9%), la ricerca di un miglioramento economico (29,5%) o di una migliore conciliazione tra vita e lavoro (26,2%). I sindacati su questi temi sono in notevole ritardo. Non hanno saputo cogliere l’occasione che si è presentata subito dopo la pandemia, la ripresa economica del post covid apriva nuove speranze.  Imprese e sindacati non hanno approfondito minimamente, ad esempio, temi come lo Smart working che avrebbero favorito  i giovani nella creazione di nuovi nuclei familiari . Nonostante ci siano settori che hanno avuto notevoli profitti, i CCNL sono rimasti invariati con stipendi al di sotto della media europea. È sparito da decenni dal dibattito il tema dell’orario di lavoro, eppure è una componente essenziale dell’organizzazione del lavoro, anche in vista dell’introduzione delle nuove tecnologie. Dunque, oltre al calo delle nascite, bisogna tener conto di una situazione paradossale: non si investe in nuove tecnologie, perché non sono reperibili i lavoratori a cui affidarne l’utilizzo.  L’idea di una settimana lavorativa ultracorta sta guadagnando terreno come una potenziale soluzione per affrontare le sfide del futuro.

Ridurre la settimana lavorativa standard, spesso di cinque giorni, secondo molti risulta un’alternativa promettente per migliorare la produttività, aumentare il benessere dei dipendenti e promuovere uno stile di vita equilibrato.

Lo stesso ministro dell’ambiente Pichetto Fratin, ha sottolineato recentemente   la necessità di sviluppare il tema dello Smart Working e contemporaneamente  “valutare la riduzione delle giornate lavorative a parità di ore lavorate”. Tutte misure che andrebbero insieme a una digitalizzazione del Paese che ridurrebbe gli spostamenti fisici e ad un incentivo della mobilità dolce. La settimana ultracorta, quindi, diventa un tema di discussione anche per il governo.

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