Primo piano

L’affaire Mattei e il caso Pasolini. Di verità si può anche morire?/14

 

di Otello Lupacchini*

Queste noticine polemiche, poco importa ormai se opportune o inopportune, conducono ad emersione due « mondi ». Il primo è popolato da coloro che non rinunciano all’approccio critico alla conoscenza. Costoro, sanno che la storia è la strada che gli uomini e l’umanità percorrono, dalla nascita alla morte; son capaci, pertanto, di discernere come accanto alla grande storia, alla storia dei popoli, ci sia pure la piccola storia, la storia degli individui, che anzi non ci sarebbe quella senza di questa, come non ci sarebbe la fune senza i fili che vi si attorcigliano; conoscono le difficoltà da superare per ricostruire il passato ed altresì il loro moltiplicarsi, quando l’opus degli investiganti abbia ad oggetto un « delitto », cioè, per restare al’interno della metafora, un  pezzo di strada del quale chi l’ha percorso cerca di distruggere le tracce; essi, finalmente, non ignorano che la ricostruzione di un « fatto-reato » è un lavoro giuridicamente disciplinato, per cui nulla esclude che l’esito a cui perviene il giudice – uno storico anch’egli, ma dalle mani legate –, impeccabile in sede tecnica, lasci perplesso o dissenziente uno storico di professione, a cui incombe, per contro il dovere, poiché non patisce limiti né quanto ai metodi né quanto ai mezzi, di andare ultra vel extra la semplice verità giudiziaria.

Coloro che popolano, invece, il secondo, non si pongono problemi epistemologici, ma accettano fideisticamente la verità giudiziaria, unica e incontrovertibile, tanto più, naturalmente, se questa sia anche la verità del proprio partito, evenienza che capita raramente, ma che nel caso della morte di Pier Paolo Pasolini è purtroppo capitata. Essi si appagano dei comunicati stampa e delle dichiarazioni ufficiali. In quanto alieni allo scavo in profondità teso a scoprire la verità senza aggettivi e ad identificare gli scostamenti da essa della verità ufficiale, sono per questo disinteressati sia alle peculiarità del fatto che si definisce « delitto » sia a quelle dell’accertamento di un « fatto-reato ». I loro enunciati discorsivi non sono dissimili, seppure non altrettanto raffinati, da quelli dell’algido presidente della Corte Suprema, il quale, ironizzando sulla tenace ricerca della verità, perseguita in nome del diritto e della legge dall’ispettore Rogas, che a lui si è rivolto, per informarlo di un complotto contro lo Stato, gli dice con franchezza: « Non ci sono individui, non ci sono responsabilità individuali. Il suo mestiere, caro amico è diventato ridicolo » .

Viene spontaneo chiedersi, allora, cosa sia la verità, in un paese come il nostro, dove un omicidio passionale viene spettacolarizzato e sviscerato come se fosse fiction, arrivando, persino, ad arricchire l’arsenale probatorio, definitivamente tramontata l’era dello judicium feretri di ficiniana memoria, con lo judicium canisdi conio palombelliano, mentre i crimini più ignobili vengono nascosti e insabbiati.

Per rispondere a questa domanda, intendo confrontarmi non soltanto con la realtà, ma anche con la letteratura, la quale è sempre e per sua stessa natura ambigua: in essa convivono il sì con il no e il male, anche se negato e combattuto, deve essere espresso, e per essere espresso deve essere pensato e sentito, vissuto dal di dentro, per come i personaggi che lo esprimono lo sentono e lo pensano e lo vivono. Solo così, infatti, i personaggi di un grande scrittore, che scrive sempre in faccia all’estremo, al male, storico ed esistenziale da cui non distoglie lo sguardo, sono tali e non caricature o piatte rappresentazioni di edificanti apologhi di propaganda morale e di fedi ideologiche o religiose. La verità letteraria non è, insomma, la stessa verità di una realtà che, essa stessa, conosce diverse verità a seconda delle prospettive da cui quella verità è conosciuta. Di modo che, pur senza cadere nel relativismo più totale che annulla la verità, è del tutto evidente che la realtà, come la verità, è composita, sfaccettata, poliedrica, da ricomporre in una conoscenza complessa. La conoscenza dei fenomeni naturali come di quelli storici è composita, enciclopedica, multidisciplinare e interdisciplinare, si realizza attraverso diversi modelli e prospettive e forme di sapere. L’oscurità insita nella complessità del reale si sovrappone a un ben diverso genere di oscurità di cui abbiamo già detto: nella realtà prevalgono le ragioni del potere, dei diversi poteri e contropoteri, governativi e antigovernativi, istituzionali e non. A tal riguardo, particolarmente interessante è quanto Leonardo Sciascia dichiarò a Marcelle Padovani, nel libro-intervista La Sicilia come metafora: « sono arrivato alla scrittura-verità, e mi sono convinto che, se la verità ha per forza di cose molte facce, l’unica forma possibile di verità è quella dell’arte. Lo scrittore svela la verità decifrando la realtà e sollevandola alla superficie, in un certo senso semplificandola, anche rendendola più oscura, per come la realtà spesso è ».

Due prospettive a confronto: la pirandelliana e la scisciana.

Già alla seconda scena di Così è (se vi pare)di Luigi Pirandello , Lamberto Laudisi mette a fuoco con queste parole la tesi sostenuta dal drammaturgo agrigentino: « Io sono realmente come mi vede lei – Ma ciò non toglie, cara signora mia, che io non sia anche realmente come mi vede suo marito, mia sorella, mia nipote e la signora qua… Vi vedo affannati a cercar di sapere chi sono gli altri e le cose come sono, quasi che gli altri e le cose per se stessi fossero così o così ». In gramaglie, con il misterioso volto coperto dal velo nero, alla fine della commedia, si presenta la Verità. Le sue parole sono scolpite, come quelle di una sibilla e rimbalzano nella cultura esasperatamente relativista: « Io sono colei che mi si crede ». La verità, dunque, per Pirandello non esiste o, meglio, non esiste un’unica verità, tutto è relativo, e il titolo stesso della commedia, Così è (se vi pare), ampiamente significativo a riguardo: il suo è un nichilismo pieno di pietà, tanto che la Verità, col volto velato di donna, permette il congiungimento in un tenero abbraccio tra i due protagonisti, torturati da una schiera di curiosi, investiti da velenosi sospetti.

Leonardo Sciascia, imbevuto di luoghi e storie pirandelliane, si mostra invece convinto che la verità c’è ed è, se così si può dire, individualizzabile, localizzabile, e che, dunque, è definibile sia cosa è giusto sia cosa è ingiusto sia la possibilità di una lotta contro l’ingiusto dalla parte del giusto. Ma il suo percorso non è affatto lineare: egli, almeno inizialmente, assume Pirandello come un laico correttivo antidogmatico del dogmatismo ideologico, utile in una società come quella italiana allora dominata da due opposte fedi, dai dogmi di due opposte Chiese, quella comunista, marxista-leninista, del Pci e quella cattolica e democristiana; quando, però, la società si avvierà a divenire quella odierna, che svilisce il relativismo a senso comune di una nuova fede conformista e dogmatica, ritornerà pure la credenza e la fiducia sciasciana in una verità conoscibile.

Significativo il seguente brano tratto dal dialogo tra don Mariano, il boss mafioso, e il capitano dei carabinieri Bellodi che lo sta sottoponendo a un duro interrogatorio: «  “La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità.” […] “Lei ha aiutato molti uomini” disse il capitano “a trovare la verità in fondo a un pozzo.” »

La relativistica e pirandelliana affermazione di don Mariano sulla verità, che non esiste e non si può raggiungere, va considerata in quanto parte della testimonianza di un mafioso, come componente ed espressione di un atteggiamento di reticente negazione della verità giudiziaria e, più in generale di qualsiasi verità, per tagliare corto all’interrogatorio e a qualsiasi discussione. L’affermazione è ispirata, dunque, a una sorta di giustificazione ideologico-culturale, sul piano del sentire comune, tanto più se siciliano, di un atteggiamento omertoso. Omertosa è l’intenzione e la prospettiva mafiosa di don Mariano che parla anche con un vago, ma riconoscibile, proposito intimidatorio che Bellodi coglie, come dimostra la sua risposta, che allude all’eliminazione, da parte della mafia, di persone informate dei fatti e depositarie di verità nascoste: testimoni di giustizia, possibili testimoni, inquirenti scomodi e ostinati. Bellodi stesso viene « eliminato »: non ucciso, ma allontanato grazie al provvidenziale intervento di un politico legato alla mafia, una sorta di « Conte zio » di quei Promessi sposi che per Sciascia fotografano ancora oggi tanti aspetti di una situazione italiana immutata, se non addirittura immutabile

In sintonia con la trasformazione del razionalismo sciasciano da una concezione del mondo impregnata di una forte tensione etica e volontaristica a metodo d’analisi del reale, procede in parallelo l’evoluzione pessimistica dell’ideologia dell’intellettuale di Recalmuto, e la tecnica del suo « giallo » tende progressivamente a divenire forma figurazionale privilegiata di analisi del processo disgregativo delle istituzioni dello Stato: all’anomalia costituita dal fatto che il delitto rimaneva impunito, se ne aggiungerà un’altra: gli investigatori dopo aver scoperto il mandante o i mandanti vengono a loro volta assassinati. Una novità in cui si esprime, in crescendo dall’uno all’altro romanzo, la trasformazione mafiosa della società italiana, la sua fuoriuscita dallo Stato di diritto.

 

*Giusfilosofo

 (Nella foto Mattei-Pasolini e Demauro)

14/segue

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