Primo piano

Riflessioni di un vecchio signore d’altri tempi sulla motivazione della Sentenza del processo “Trattativa Stato-Mafia”

di Otello Lupacchini

Non appartengo alla schiera dei «giovinotti esuberanti» che detestano la montagna, la sua cupezza, il suo incombere, il legno intarsiato a forma di cuore, le mucche al pascolo, i fiori ordinatamente speranzosi che si affacciano dai balconi,  i rigori alternati agli eccessi in una scala che non lascia scampo: sveglia alle sette, vestizione, file, gelo, fatica, pericoli,  gulash a mezzogiorno. Sono un vecchio signore d’altri tempi che ama trascorrere in montagna i suoi otia, investendo il suo tempo nella contemplazione di amene viste e nel godimento di cortesi costumanze, evitando svaghi culturali estremi e scegliendocon grande cura a quali letture dedicarmi. È una questione olfattiva: gli scritti firmati da sedicenti «massimi esperti» o da acclamati e fin troppo prolifici écrivains, assurti, dio solo sa per quali recoditi meriti, ma non certo grazie a un qualche particolare talento, a «veri e propri casi letterari», sono sempre maleodoranti: vi si attacca l’odore della gente mediocre. Si sa, tuttavia, che alle umane venture sovrintende il caso. E questo ha voluto che il deposito della ponderosa motivazione, sviluppata in quasi duemila e ottocento pagine, della sentenza con cui, nello scorso settembre, la Corte d’assise d’appello di Palermo, nel processo sulla cosiddetta «Trattativa Stato-Mafia», aveva ribaltato le condanne degli ex ufficiali del Ros dei Carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, in ordine al delitto di «Violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti» (art. 338 c.p.)  sia avvenuta in coincidenza con la mia partenza per la montagna. Inutile dire che ciò ha manato all’aria tutti i miei progetti, essendo apparsa senz’altro doverosa la lettura di tale interessantissimo documento che verrà il momento di commentare. Ma non ora, perché sarebbe frutto di cialtronesca arroganza pretendere di pronunciarsi nel merito di  esso senza averlo attentamente compiutamente letto, adeguatamente compreso e ben metabolizzato. Altri, per vero, lo hanno già commentato «a caldo» e, poiché si tratta, inequivocabilmente, di «portatori d’interessi di parte», i quali, dunque, meglio avrebbero fatto a ben ponderare le argomentazioni dei giudici, prima di esprimere su di esse giudizi demolitori, le loro prese di posizione hanno tutto il sapore di un voler «mettere le mani avanti», nel tentativo, magari comprensibile, ma quantomeno affrettato, di difendere «a prescindere» il partito preso. Chiarissimo, in tal senso, Roberto Scarpinato («Il fatto quotidiano», 10 agosto 2022, pp. 7 e 8), il quale, dopo aver sintetizzato così l’imponente motivazione: «La Corte di Assise di Appello del processo “trattativa Stato-mafia” ha ritenuto provata la condotta materiale del reato contestato agli imputati Mori e De Donno, essendo state accertate le plurime condotte da essi poste in essere nel tempo in violazione di tutte le regole di legge, per ripristinare con la componente più “moderata” di Cosa Nostra, capeggiata da Provenzano, il patto di coesistenza pacifica con lo Stato che aveva caratterizzato tutta la storia della prima Repubblica e che i vertici mafiosi ritennero tradito con le condanne definitive del maxiprocesso» e  sottolineato che «la Corte non ha ritenuto sussistente la componente soggettiva del reato, cioè il dolo, perché tali condotte sarebbero state motivate da intenti “solidaristici”, cioè dall’intento di evitare ulteriori stragi. Ciò sebbene le condotte degli imputati abbiano di fatto sortito (com’era ampiamente prevedibile) l’effetto opposto di rafforzare la determinazione della mafia di compiere ulteriori stragi, quali quelle del 1993, per concludere la trattativa. E ciò nonostante tali condotte abbiano di fatto consentito il prolungamento per tanti anni della latitanza e quindi dell’attività criminale di Provenzano»; ammette, per un verso, di «condividere la preoccupazione di chi, come il collega Di Matteo (v. «La Repubblica», 7 agosto 2022, p. 17, n.d.r.) ha già osservato come tale motivazione si presti ad esser letta come una legittimazione e un viatico a dialogare con la mafia, a “conviverci” purché e affinché moderi la sua aggressività rendendosi silente», per l’altro, intende «focalizzare un altro aspetto rilevante della sentenza: la parte sui possibili motivi che determinarono Riina ad anticipare e accelerare l’uccisione di Borsellino». Or bene, a tacer d’altro, non è un caso che proprio Antonino Di Matteo sia stato magna parsnella costruzione del processo cosiddetto «Trattativa Stato-Mafia» e che lo stesso Roberto Scarpinato fosse uno dei pubblici ministeri palermitani che chiesero l’archiviazione del cosiddetto «dossier Mafia-Appalti» predisposto dal Ros dei Carabinieri, sul quale l’allora procuratore aggiunto Paolo Borsellino aveva manifestato particolare interesse. La sensazione è, dunque, che la lingua batta dove il dente duole: la Corte d’assise d’appello di Palermo, lungi dall’individuare nella scoperta della trattativa Stato-Mafia la ragione dell’accelerazione della morte di Borsellino è piuttosto nell’interesse per il «dossier Mafia-Appalti», di cui il magistrato sino all’ultimo non fece mai mistero, che individua tale ragione. Neppure sembra sia un caso, del resto, che Roberto Scarpinato, in aperta critica alla Corte d’assise d’appello, per un verso, contesti alla stessa di non essersi chiesta «perché alcuni magistrati che più si sono spesi per dimostrare la compartecipazione di soggetti esterni alle stragi del 1992-1993 siano stati accomunati dallo stesso destino: ostracizzati ed emarginati in vari modi, taluni persino sottoposti a inchieste disciplinari e financo penali, altri nel mirino di prolungate campagne di delegittimazione» ed evochi non meglio specificati «vari indizi» che indurrebbero «a ritenere che purtroppo le stragi del 1992-’93 non sono eventi conclusi, ma sono ancora tra noi, perché accanto a un dibattito pubblico e a una dialettica giudiziaria in cui continuano democraticamente a confrontarsi opinioni diverse, non sono mai cessate dietro le quinte occulte manovre per chiudere definitivamente questa spinosa partita, riducendo una volta per tutte le responsabilità e le causali esclusivamente a personaggi come Riina e sodali, elevati a icone totalizzanti del male di mafia».

È ferma convinzione di questo vecchio signore d’altri tempi che ogni discorso vertebrato debba muovere da premesse esatte e che ciò sia tanto più vero quando è in gioco la credibilità di una pronuncia giurisdizionale, oggetto di critiche mosse alla stessa da pubblici ministeri spinti dall’esigenza di dimostrare la bontà delle proprie prospettazioni accusatorie che il giudice abbia disattese e contraddette: la decisione sull’oggetto del processo spetta solo al giudice e mai all’accusatore, portatore, in quanto «parte», di una «verità» necessariamente «parziale», nonostante una prassi disdicevole abbia indotto in un’opinione pubblica frastornata sin dall’inizio delle indagini da rumorosi battagespropagandistici, fatti di rutilanti conferenze stampa e veline artatamente diffuse dagli investiganti, l’erronea convinzione che quella e solo quella dell’accusatore sia la «verità», là dove essa è invece nulla più di un’ipotesi solipsisticamente elaborata, da verificare nel contraddittorio tra tutte le parti, soprattutto con la difesa dell’accusato, secondo un ben preciso pleading, davanti a un giudice terzo e imparziale. Non solo, ma come insegnano giuristi degni di tale nome, momento terminale del processo penale, sede nella quale il giudice è chiamato a ricostruire fatti di cui predicare il valore, è la sentenza, la quale costituisce altresì il momento finale del fenomeno normativo, cioè quello in cui dal prodotto semilavorato che è la legge, generale e astratta, si giunge al prodotto finito, cioè alla inorma del caso concreto, implicante una scelta necessariamente politica tra le svariate norme esigibili dai testi, in applicazione dei criteri d’interpretazione, dettati nel nostro Ordinamento dagli articoli 12  e seguenti delle pre-leggi al codice civile. Insegnano sempre i giuristi degni di tale nome, che in tutti i fenomeni normativi, dunque anche nella sentenza, conviene distinguere un criterio formale, il rapporto di forza fra detentori del potere e sudditi, il meccanismo desiderio-ripugnanza e, finalmente, il giudizio del suddito sull’establishement, aspetti che appartengono, rispettivamente, alla teoria pura delle norme, alla politica, alla psicologia e all’ideologia della giustizia, intesa come tentativo più o meno consapevolmente truffaldino di presentare una preferenza emotiva come discorso verificabile. I cattivi pensatori confondono le tre questioni, vale a dire che la legge da cui sia esatta la norma è valida se conforme a certe regole di produzione giuridica, efficace se ottiene un minimo d’obbedienza, giusta nella misura in cui corrisponde a certi modelli ideologici naturalmente relativi. Che, tuttavia, in qualche caso la confusione sia voluta si vede, ad esempio, dai sermoni dei giusnaturalisti cattolici, allorché sostengono che la legge ingiusta non è una legge: i meno maldestri sanno di dire cosa insensata, ma la dicono per ovvie ragioni pratiche, se infatti si spiega ai sudditi che non è una legge li si può indurre più facilmente a disubbidire; gli altri sono invece chiacchieroni dalla testa torbida, che non vale la pena di stare a sentire.

(Prima parte-segue)

Related posts

Green Pass, in pochi ci rinunciano

Redazione Ore 12

8 maggio Giornata mondiale del tumore ovarico. Al Gemelli la tecnologia al servizio delle pazienti per conoscere e controllare la malattia.

Redazione Ore 12

Morte di Luana d’Orazio, richieste di rinvio a giudizio per tre

Redazione Ore 12