Politica

Salvini riscommette sui migranti per riprendersi i consensi perduti

di Fabiana D’Eramo

Matteo Salvini ci riprova con i migranti. È l’ultimo atto di disperazione di un leader che è crollato nei consensi e si è visto rubare lo scettro della sua coalizione da Giorgia Meloni. È proprio a lei che fa il più grande danno, in questo sbattere i pugni su tavoli che non esistono. Perché se è un intervento più deciso ciò che serve, allora la premier è stata troppo morbida. E se ci è voluto quasi un anno di governo per risentire la voce grossa di Salvini, allora gli sbarchi sono l’unica carta rimasta al leader della Lega per dimostrare la propria rilevanza.

“Io oggi qua e Giorgia a Lampedusa”, giura sul palco di Pontida, “sono la sintesi di uno stesso obiettivo e destino comune. Non riusciranno a dividerci”. Ma gli alleati schierati sui due fronti per contenere la tensione a seguito del susseguirsi degli sbarchi esprimono già due “sensi di militanza” molto diversi. Lo scontro a distanza che anima il governo vede infatti lei a Lampedusa con la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e la commissaria europea per gli Affari interni Ylva Johansson ad incontrare i migranti, e lui a Pontida, a rilanciare la linea dura contro gli sbarchi al fianco di Marine Le Pen.

“Voi in Italia e noi in Francia siamo impegnati nella stessa lotta”, ha detto l’alleata al raduno della Lega, “la lotta per le libertà e per la patria”. Libertà di fare cosa? Di essere sovranisti, tracciare un confine, chiudere la porta, metterci un lucchetto. Per difendersi. Secondo Salvini ci dobbiamo difendere. Ci dobbiamo tutelare. “L’Europa è clamorosamente assente”, accusa, “lontana, distratta, ignorante e sorda. Dovremmo muoverci per conto nostro e difendere le frontiere per conto nostro”. Vorrà dire che qualcuno ci starà attaccando. Ed è per questo che il ministro delle Infrastrutture non esclude nessun tipo di intervento: “A mali estremi, estremi rimedi. L’Italia metterà in mare e a terra tutti i mezzi necessari”. Addirittura, ipotizza l’utilizzo della Marina militare.

Sono queste dichiarazioni che hanno rafforzato l’idea, già piantata dal vicesegretario della Lega Andrea Crippa, che nel governo ci sia crisi. La “linea diplomatica” tenuta sui migranti da Giorgia Meloni – che comunque è d’accordo sullo stop alle partenze – non starebbe portando a niente, e Crippa pensa che, contando che “l’Europa non ci aiuta”, bisognerebbe fare tutto da soli, “tornare a fare ciò che faceva Salvini quando era ministro dell’Interno. Lui ha dimostrato che i problemi si possono risolvere con atteggiamenti più rigidi”.

E infatti Salvini è tornato al pugno duro. Alla vecchia retorica. L’eterna lotta. Noi e loro. Dentro e fuori. Italiani e non. A seguito dell’avvio del governo Meloni, dopo una prima fase di assopimento – vivere all’ombra dell’alleata non deve essere stato facile dopo aver smantellato non uno, ben due governi, nella speranza di diventare premier – è tornato a minacciare l’uso delle maniere forti per dimostrare a quella fetta di italiani che una volta gli ha creduto, concedendogli più del 34% dei consensi, che la Lega ha ancora qualcosa da dire, può rappresentare ancora qualcuno, promettergli qualcosa, rassicurarlo, soffiare sulle sue paure. Questo necessario appiglio, la scialuppa di salvataggio per spostarsi oltre l’8% a cui è stato condannato alle scorse politiche, Salvini lo vorrebbe ritrovare nella lotta agli sbarchi. Perché di lotta si tratta: non parla di redistribuzione, contenimento o salvataggio, ma di espulsione, chiusura e difesa. È una lotta. Tornano i vecchi schemi interpretativi su cui ha costruito intere campagne elettorali, le stesse parole, la stessa narrazione, gli stessi personaggi – il nemico esterno (i migranti invasori) e il nemico interno (l’Europa traditrice). Risuggerisce, infine, l’ipotesi del complotto: che ci siano “paesi stranieri, anche paesi europei, che stanno finanziando delle associazioni che contribuiscono a questo flusso migratorio”. È una mossa disperata, l’ultima carta da giocare prima di chiudere. La creazione di un universo di caos in cui si può ripristinare l’ordine solo alla sua maniera. “Quando ero ministro io”, ricorda, “gli sbarchi erano meno di un decimo di quelli a cui stiamo assistendo”.

La verità è che, durante i suoi quindici mesi di mandato, Salvini ha dimostrato che quello dei “porti chiusi” è stato per lo più uno slogan elettorale. Secondo le rilevazioni del Ministero dell’Interno, con il primo governo Conte sono arrivati via mare 15029 migranti, circa mille al mese. L’andamento degli arrivi è calato in maniera costante fino a febbraio 2019, per poi risalire in primavera ed estate, ma il calo degli sbarchi era iniziato già da prima che Salvini diventasse ministro dell’Interno, a partire dall’estate del 2017, dopo che l’allora ministro Marco Minniti (Pd) strinse accordi con le fazioni libiche. È pur vero che negli ultimi anni gli sbarchi sono tornati ad aumentare, ma i numeri restano ancora lontani da quelli registrati tra il 2014 e il 2017. Ma i fatti hanno poco a che vedere con la retorica. Venuto dopo il picco della crisi migratoria, Salvini ne ha fatto il centro della propria carriera politica e vorrebbe oggi rifarne il primo e più grande problema d’Italia per tornare ai lustri di un tempo. Quanto questo ritorno allo stato bruto gioverà al governo – che non è solo di Giorgia Meloni, ma è anche il suo – è da vedere.

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