di Marcello Trento
La storia, con la sua ostinata ciclicità, ci consegna un’immagine ricorrente: uomini in divisa che marciano, carri armati che rombano, aerei che solcano i cieli. Ogni volta che un esercito si muove, si porta dietro una narrativa, spesso velata, di necessità o difesa. Eppure, osservando la scia di distruzione che si lascia alle spalle – dall’Impero Romano che spazzava via le culture sottomesse, alle conquiste sanguinose del West americano, fino alle cicatrici ancora aperte in Iraq, Ucraina e nella Striscia di Gaza – sorge spontanea una domanda che travalica la strategia militare: a chi giova veramente tutto questo? L’idea, quasi un mantra, che il vincitore si arricchisca, che la guerra sia in fondo un affare redditizio, è una delle più grandi e pericolose illusioni del nostro tempo.
Spesso si sente dire che la guerra porti risorse, mercati, potere. Una visione semplicistica, quasi da contabilità spicciola, che ignora un’infinità di costi sommersi e manifesti che rendono ogni “vittoria” un peso economico insopportabile. Immaginate il bilancio di una nazione: se si potessero contabilizzare, riga per riga, le perdite umane – non solo i soldati caduti, ma anche i civili, gli uomini, le donne, i bambini la cui vita è stata spezzata o irreparabilmente compromessa – ci renderemmo conto che stiamo parlando di un capitale inestimabile, di intelligenze, talenti, forza lavoro che vengono annullati per sempre. E poi ci sono i feriti, coloro che sopravvivono con cicatrici fisiche ed emotive, bisognosi di cure per decenni, un costo che grava sulle spalle della collettività, spesso ignorato nelle fredde analisi dei “benefici”.
Ma non è solo una questione di vite umane. Pensiamo alle città ridotte in macerie, alle fabbriche che non producono più, ai ponti crollati, agli ospedali distrutti. La ricostruzione di queste infrastrutture non è un’opzione, ma una necessità vitale, un onere che si traduce in debiti nazionali che le generazioni future erediteranno. Quanti miliardi sono stati spesi, e si spenderanno ancora, per tentare di risanare le ferite lasciate dai conflitti recenti? La risposta è vertiginosa. E mentre si ricostruisce ciò che è stato distrutto, si distoglie l’attenzione e le risorse da investimenti cruciali per il benessere di una nazione: l’istruzione, la ricerca scientifica, la sanità, le energie rinnovabili. Settori che, a differenza delle armi, generano vera ricchezza e progresso.
Poi c’è il costo della “vittoria” stessa. Armi sempre più sofisticate, munizioni che si consumano a ritmi folli, il mantenimento di eserciti, l’addestramento, il carburante per macchine da guerra: tutto questo è un fiume di denaro che si riversa nell’industria bellica, ma che per la società è un salasso continuo. E non è finita qui: la guerra genera instabilità, migrazioni di massa, crisi umanitarie che travolgono intere regioni e persino continenti. I costi per accogliere e sostenere milioni di sfollati sono immensi, e la fuga di cervelli, la dispersione di intere comunità impoveriscono irrimediabilmente le economie già martoriate.
Anche quando un’operazione militare è considerata un “successo”, le conseguenze economiche possono essere devastanti. L’instabilità politica che spesso segue, l’isolamento diplomatico, le sanzioni internazionali che possono colpire anche il “vincitore”, tutto contribuisce a un quadro economico ben lontano dall’immagine di un bottino. Pensiamo alla guerra in Iraq: anni di conflitto, miliardi spesi in risorse e ricostruzione, e una stabilità che ancora oggi fatica a farsi strada. O l’Ucraina, dove la distruzione è tale che si parla di centinaia di miliardi di dollari necessari per la ricostruzione, un onere che ricadrà sull’intera comunità internazionale. E la Striscia di Gaza, un esempio lampante di come la logica della guerra generi solo una spirale di distruzione e dipendenza dagli aiuti, senza alcun beneficio economico tangibile, solo una tragedia umana ed economica senza fine.
La narrazione che la guerra possa essere un’opportunità economica per il “vincitore” è un pericoloso inganno, una distorsione della realtà che continua a perpetuarsi. La storia, con i suoi drammatici capitoli che si ripetono, ci urla una verità incontestabile: la vera rendita economica, la prosperità duratura e il benessere di un popolo non si costruiscono con la distruzione, ma con la pace, la cooperazione, l’innovazione e il dialogo. Fino a quando i “signori della guerra”, intrappolati in una logica obsoleta e autodistruttiva, non comprenderanno questa semplice lezione, il conto, sempre più salato, continuerà a essere presentato all’umanità intera.