Politica

  LA STORIA – 10 giugno 1924, il sequestro e l’omicidio di Giacomo Matteotti

 di Otello Lupacchini*

 

Per l’Italia post-bellica, dove accanto ad un popolo povero, ancora vestito di nero per i suoi seicentomila morti inghiottiti dall’Apocalisse della Prima guerra mondiale, alle prese con la disoccupazione o la sotto-occupazione e con la battaglia quotidiana per la sopravvivenza, convivevano corsari della finanza, capitani d’industria, faccendieri di grande e piccolo cabotaggio, lestofanti di varia estrazione, «pescicani» arricchiti con le forniture militari a fattura gonfiata o con il mercato nero, trafficanti di favori, il 1924 fu annus horribilis.

Il fascismo al potere, affamato di finanziamenti per la propria organizzazione e per i leader giunti ai «palazzi» con le toppe ai pantaloni, ma con un patologico bisogno di rivalsa e onnipotenza, era ancora una dittatura dissimulata dietro la redingote e il cilindro di Benito Mussolini, l’uomo che di lì a poco sarebbe stato il «duce della rivoluzione».

Nel caldo pomeriggio del 10 giugno 1924, un deputato uscì di casa, sul Lungotevere, recando con sé una borsa piena di documenti. Era diretto in Parlamento, ma non vi sarebbe mai giunto e neppure sarebbe tornato più a casa: dopo averlo picchiato mortalmente, alcuni uomini, appartenenti alla «Ceka del Viminale», un gruppo segreto di squadristi reclutato dal ministero dell’Interno e guidato da Amerigo Dumini, uomo chiave del delitto, anello di congiunzione tra certi affaristi del regime, autore, a suo dire, di undici omicidi, assiduo nelle sedi del partito e a Palazzo Chigi, dov’era accolto «con grande confidenza», lo caricarono in macchina e partirono a tutta velocità verso la periferia di Roma.

La vittima non era un deputato qualsiasi: nato a Fratta Polesine nel 1885, possidente terriero illuminista, avvocato, sindaco di Villamarzana, consigliere provinciale di Rovigo, eletto nel 1919 alla Camera dei deputati, Giacomo Matteotti, nel 1922, aveva promosso la costituzione del Partito socialista unitario, divenendone segretario nazionale.

Intransigente antifascista, difensore dei braccianti agricoli poveri, più volte minacciato e aggredito da gruppi fascisti, ostacolato nella professione forense e nell’attività parlamentare, solo dieci giorni prima della sua sparizione, quale leaderdi uno dei maggiori partiti di opposizione se non quale leaderdell’opposizione intera, aveva pronunciato alla Camera dei deputati una documentata requisitoria sulle violenze fasciste contro i candidati socialisti, comunisti, repubblicani, liberali progressisti.

Circa due mesi dopo la sua sparizione, il cadavere di Matteotti venne trovato, malamente sepolto, in un’area seminascosta da una fitta boscaglia. Accanto ai poveri resti, nessuna traccia della borsa che aveva con sé al momento del sequestro, contenente le prove che il regime fascista stava in piedi anche e soprattutto con l’aiuto della corruzione; che i suoi uomini si arricchivano truffando lo Stato, incassando jugulatorie tangenti; che il Partito nazionale fascista esigeva parte dei proventi «succhiati» ai big della finanza e dell’industria, i quali ricevevano in cambio favori e appalti, per finanziare le federazioni che stavano sorgendo in tutta Italia, i quotidiani fiancheggiatori e le clientele di fedelissimi che avevano ben meritato prima, durante e dopo la marcia su Roma e tuttora meritavano per ragioni che erano ai limiti o fuori della legalità.

Due, in particolare, gli scandali ad alto potenziale distruttivo che minacciavano il regime: la sistematica truffa ai danni dello Stato rappresentata dal traffico dei residuati bellici e l’operazione Sinclair Oil con la quale Mussolini tentò di dare in concessione esclusiva i diritti per la ricerca petrolifera in Italia al gigante Usa Standard Oil. Il che, come appare ovvio, rappresentava un danno incalcolabile per il nostro Paese. Manca ancora la prova diretta che leghi Mussolini all’assassinio di Matteotti, la mole di testimonianze e indizi che si concentrarono su di lui fu tale, però, da incatenarlo quasi subito al sospetto d’essere il mandante del delitto: Mussolini conosceva fin troppo bene Dumini, avendogli già affidato diverse spedizioni punitive per difendere il fascismo con la violenza «chirurgica e intelligente» che rivendicava come necessaria, tanto da intimare agli avversari di «sottomettersi o perire»; Matteotti, per altro, era l’unico uomo politico che avesse il coraggio, l’intransigenza e la lucidità per ostacolare seriamente un progetto già pronto a sfociare in regime e che non sarebbe arretrato in nessun caso, per quanto prevedesse la propria fine: «Io il mio discorso l’ho fatto», aveva detto il 30 maggio 1924 ai suoi compagni, dopo aver pronunciato il durissimo atto d’accusa a Montecitorio, «ora sta a voi preparare l’orazione funebre per me».

Ce n’era, dunque, abbastanza per le immediate dimissioni del governo.

Tutto sembrava far credere a una crisi, ma non fu questo che accade: l’opposizione parlamentare scelse la strada della protesta morale, il governo resistette, la maggioranza non accennò a spaccarsi, il regime si consolidò.

Benito Mussolini, il trionfatore delle elezioni del 1924 contro le quali aveva tuonato Giacomo Matteotti, forzò la sorte e instaurò la «dittatura a viso aperto».

 

* Giusfilosofo

Related posts

Dopo le elezioni Sardegna Schlein chiede altre alleanze con il M5S

Redazione Ore 12

Gabrielli rompe il silenzio: “Nessuna lista di proscrizione. Non indaghiamo sulle opinioni. La diffusione del Bollettino non resterà impunita”

Redazione Ore 12

Extraprofitti, Bernini: “Non tassiamo contro le banche ma per le famiglie e le imprese”

Redazione Ore 12