Primo piano

L’affaire Mattei. Di verità si può anche morire?/1

di Otello Lupacchini

 

Sabato 27 ottobre 1962, ore 18 e 50. Poco prima di atterrare all’aeroporto di Linate, l’aereo Morane Saulnier 760, proveniente da Catania e diretto a Milano, si schianta sulle campagne di Bascapé, (nella foto una parte del velivolo) nel cuore della provincia pavese. I corpi, orribilmente mutilati e carbonizzati del presidente dell’Eni Enrico Mattei, del pilota Irnerio Bertuzzi e del giornalista americano William McHale, finiscono a pezzi tra le pozzanghere. In cinque secondi sommersi dal silenzio e dal buio, per dirla con Enzo Biagi, quel 27 ottobre 1962, a Bascapè di Pavia si chiudeva la storia di Enrico Mattei.

Parlando dell’episodio, Giorgio Bocca avrebbe scritto: «Gli aerei non precipitano senza motivo»; ed è proprio intorno all’eziologia del disastro che si gioca la partita sulla verità di quello che s’è via via pervertito in uno dei più oscuri misteri d’Italia. Come accaduto, infatti, per altre tragiche vicende del nostro passato, la ricostruzione del disastro aereo è stata sin da subito e, quindi, costantemente caratterizzata da bugie, depistaggi, soppressioni e occultamento di prove, oltre che una lunga scia di sangue.

Sin dalla sera del 27 ottobre 1962, «ma soprattutto la mattina successiva», stando ai precisi ricordi di Nello Bracci, comandante della squadra di polizia giudiziaria intervenuta sulla scena del terribile schianto, «si era verificata un’evidente sovrapposizione nell’attività di ricerca dei resti dell’aereo e umani, da parte di alcune persone in divisa dell’Eni», accanto alle quali «ve ne erano altre in borghese, che […] appartenevano ai servizi di sicurezza».

Due le inchieste, condotte nell’immediatezza del disastro: una militare, promossa dal ministro della Difesa Giulio Andreotti, chiusa velocemente, nel marzo 1963, con una Relazione di trentanove pagine; l’altra condotta dall’Autorità giudiziaria pavese, le cui risultanze, compendiate nella requisitoria del pubblico ministero del 7 febbraio 1966, furono poste a fondamento della sentenza «di non luogo a procedere, perché i fatti non sussistono» del giudice istruttore. Entrambi le suddette inchieste pervennero alla conclusione che il Morane Saulnier 760 su cui viaggiava Enrico Mattei sarebbe precipitato a causa del temporale e perché il pilota era affaticato.

La versione che l’aereo fosse precipitato a Bascapè, «nel mezzo di un grande temporale autunnale», fu divulgata ed enfatizzata dai media, anche a distanza di anni dal tragico evento, e ribadita, peraltro, a più riprese, sia da penne autorevoli, e, a tal proposito, il pensiero corre, tra gli altri, a Sergio Romano e a Indro Montanelli; sia da Marcello Colitti, già direttore per la programmazione e lo sviluppo dell’Eni e vicepresidente dell’Agip Spa, i quale, nel 1979, sottolineò che «Il 27 ottobre 1962 il jet di Mattei si schiantò a Bascapè […] nella terra resa molle dalle piogge e dal temporale che infuriava nella zona al momento del disastro». Tale vulgata, tuttavia, si fondava su una solenne menzogna, puntualmente smentita dai bollettini metereologici allegati alla Relazionedella commissione ministeriale d’inchiesta, dalle dichiarazioni del generale Francesco Biondo, membro della medesma commissione, e dei piloti che erano a Linate, in attesa di decollare o atterrare, al momento della caduta del Morane Saulnier 760 di Mattei. Le condizioni meteorologiche tra le 18 e 25 e le 18 e 57 ora locale, su Linate e Bascapè, insomma, non erano affatto avverse: calma di vento, visibilità 900 metri, pioggia, strati temperatura 9 gradi.

Le conclusioni a cui pervennero, allora, sia l’inchiesta amministrativa sia l’istruzione giudiziaria sono viziate, peraltro, da una tal trascuratezza nelle investigazioni che le testimonianze oculari non solo furono circoscritte in un ambito eccessivamente esiguo, ma di quelle poche si si sottolineò anche la sostanziale irrilevanza.

Il 13 marzo 1963, in particolare, Benito Antonio d’Errico, comandante della tenenza dei carabinieri di Pavia, comunicò al procuratore della Repubblica che «dagli interrogatori, tutti agli atti di questo ufficio e di codesta procura, condotti in luogo al tempo dell’incidente, si rileva come non vi è alcuna testimonianza che ammetta categoricamente di aver veduto un aereo in volo avvolto dalle fiamme, ma una concorde versione riflettente la percezione uditiva di un velivolo, tra i tanti che fanno capo al vicino aeroporto di Linate, dall’insolito rumore dei motori, seguito a breve distanza da un forte schianto»; i periti della procura, gli ingegneri Belloni e Zanasi, asseverarono, peraltro, che «L’interrogatorio dei testimoni di cui ai verbali in atti, non ha fornito elementi informativi di particolare interesse, né è valso a mettere in chiaro alcun indizio sulla natura e sulle cause dell’incidente»; il giudice istruttore, infine, chiudendo le indagini, si limitò ai pochi testi indicatigli dai carabinieri.

Per contro, nell’ottica degli investiganti, fondamentale fu piuttosto la testimonianza «oculare» di Mario Ronchi, un agricoltore abitante nella vicina cascina Albaredo, sebbene costui avesse fornito due versioni antitetiche: nell’immediatezza, raccontò a Fabio Mantica, cronista del «Corriere della Sera», di un «tuono strano, perché anche se pioveva, non pareva tempo da nubifragio», di una palla di fuoco che rotolava nel cielo, seguita da numerose «stelle filanti», di bagliori luminosi che scendevano rapidamente verso terra sotto una pioggia battente, precisando d’aver capito subito che si trattava di un aereo; e allorché escusso dai carabinieri, il 29 ottobre 1962, dichiarò, invece, d’aver notato, a trecento metri da casa sua, a terra e non più in cielo, «un incendio di proporzioni gigantesche», di aver inutilmente tentato d’avvicinarsi al luogo della sciagura, poiché «bloccato dalle fiamme, dal buio intenso e dalla pioggia», di aver capito solo più tardi che si trattava di un apparecchio caduto. Soltanto molti anni più tardi, nel 1997, lo stesso Ronchi avrebbe comunque riferito un fatto estremamente interessante: la mattina del 28 ottobre 1962, quindi dopo l’uscita del pezzo di Mantica con le sue rivelazioni a caldo, alcuni dipendenti della Snam, consociata dell’Eni, si erano presentati alla sua cascina per accompagnarlo in un non meglio precisato ufficio, dove venne interrogato su quanto visto la sera precedente. Non si sa cosa effettivamente fosse accaduto in quell’ufficio, se dunque il testimone fosse stato minacciato, subornato o, magari, semplicemente consigliato di modificare la sua originaria versione; si sa, tuttavia, che Mario Ronchi, dopo quel colloquio, stipulò un regolare contratto per la pulizia e il taglio dell’erba nel recinto Snam, con la retribuzione annuale di circa ottocentomila lire. È certo, in ogni caso, che in virtù della seconda versione, reiterata dal testimonio davanti alla Commissione ministeriale d’inchiesta, venne esclusa l’ipotesi del sabotaggio e sull’intera vicenda calò un ultratrentennale silenzio. Omnium rerum vicissitudo est. La massima per cui tutte le cose hanno la loro vicenda, insomma nulla v’è di stabile, tratta da Eunucus, la commedia di Terenzio, sintetizza alla perfezione l’andamento degli accertamenti giudiziali sul disastro aereo di Bascapè.

1 (Segue)

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