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Pd: Schlein farà davvero la rivoluzione? di Fabiana D’Eramo

di Fabiana D’Eramo

La parola d’ordine è “rivoluzione”. Elly Schlein è la risposta all’estenuante richiesta di cambiare il Pd. Il volto che promette la rifondazione dell’identità dispersa. Dispersa e follemente agognata, da lei a Bonaccini, e prima ancora da Letta, e un po’ da chiunque, in coda o tra le prime file del partito, si sia trovato a fare i conti con le macerie del renzismo, o con la sconfitta del 25 settembre. La chimerica vocazione riformista del Pd è diventata elemento centrale all’interno di ogni campagna. Tutti, in un modo o nell’altro, hanno promesso un Partito Democratico diverso da sé stesso – dalla sua idea originale o da quel che è diventato non è chiaro – e a una settimana dal risultato delle primarie, seppure non abbia avuto ancora il tempo materiale per fare niente, la nuova e prima segreteria del Pd deve dimostrare di essere davvero la più convincente. L’unica all’altezza dell’impresa. Rottamare il Pd.

È per questo che in oltre un milione hanno partecipato al voto, e per questo in quasi quattromila si sono collegati al sito del partito per procedere all’iscrizione online a nemmeno ventiquattro ore dall’annuncio dell’apertura del tesseramento in diretta da Fazio. Secondo Renzi, elettori e simpatizzanti dem si aspettano che Schlein “cambi la pelle al Pd”, attuando una trasformazione del partito in un “partito di sinistra-sinistra”. E Meloni si aspetta “un’opposizione durissima”, diversa da quella soft che le ha permesso l’ingresso a Palazzo Chigi.

Il primo atto politico della segretaria è stato un j’accuse contro il Viminale per le parole “disumane” usate sul naufragio dei migranti a Cutro, in Calabria. Schlein ha chiesto a Piantedosi di dimettersi e a Meloni una “profonda riflessione” anche su Salvini e Giorgetti. Dunque la nuova leader ha già un merito che l’elettorato dem ricorderà: è entrata in un mondo, quello del potere, che non le riconosce ancora nulla ma le deve tutto, persino le dimissioni di un ministro. Nel paesaggio poverissimo di una sinistra indignata da tutto ma non abbastanza da puntare i piedi, il gesto è forte e tutti mimano gioia e sentono di respirare aria nuova e non vedevano l’ora che la sinistra venisse messa sottosopra.

E però può essere discutibile strizzare l’occhio al Movimento Cinque Stelle se si vuole accusare il governo Meloni di avere dei morti sulla coscienza per norme più morbide di quelle varate a suo tempo da Conte, quando la nave si chiamava Diciotti o Sea Watch, oppure quando il Decreto Sicurezza Bis è finito sui banchi della Camera durante il governo giallo-verde. Eppure nel gioco di alleanze di Elly Schlein c’è in ballo di sfilare accanto a Conte, oltre ad assorbire i partitini della sinistra radicale. D’altronde se si leggono a voce alta i punti cardine del M5S si può quasi sentire la voce della neo segretaria fare l’elenco: ambiente, salario minimo, sostegno a imprese e ceto medio. Secondo Calenda Pd e Movimento sono ora sotto le stesse voci (“populista” e “radicale”) mentre per Renzi competono per lo stesso elettorato. Infatti i sondaggi di Swg di lunedì scorso confermano che dopo la vittoria di Schlein il Pd cresce di 2,6 punti percentuali (arriva al 19%) e il M5S perde 1,3 punti (15,7%).

E quindi Schlein vuole fare la rivoluzione ma un’alleanza giallo-rossa non ha nulla di rivoluzionario e sa di 2019. E se davvero vuole riallacciare i rapporti con i Cinque Stelle Schlein dovrà dimostrare che almeno sull’Ucraina la linea Letta non si cambia e confrontare il proprio pacifismo con quello ambiguo di Conte. Lo scenario peggiore per la sinistra sarebbe quello in cui le parole di Giorgia Meloni sull’Ucraina sono più chiare di quelle di Elly Schlein.

Perché è finita da una settimana l’infanzia del capo e comincia subito l’esercizio della leadership che deve dimostrare di essere all’altezza del ruolo di uragano che le hanno assegnato. C’è, nell’entrata in scena di Schlein, qualcosa che ricorda l’inizio del mandato governativo di Meloni – lo stesso effetto terremoto, non tanto perché entrambe donne e quindi viste come anomalie dentro alle stanze del potere, ma perché portatrici di istanze rivoluzionarie che rimbombano nelle sedi dei due maggiori partiti del paese come un eco minaccioso e insieme fresco e vivo e sovversivo. Da Meloni ci si aspettava una deriva fascita, da Schlein la rivoluzione del Pd. Come se votando l’una e l’altra i rispettivi elettori avessero voluto dire che tutto doveva cambiare, e cambiare in modo drastico e drammatico e senza tornare indietro. Eppure Meloni non ha ancora ucciso la democrazia e Schlein certamente non abolirà l’attività privata. E se l’addomesticamento della leader di Fratelli d’Italia non reca alcun danno, anzi, quello di Schlein di certo sì. Perché un partito che invoca il cambiamento religiosamente da più di una decade non può permettersi un altro leader mansueto. Altrimenti può continuare a parlare di sé stesso senza che nessuno lo stia più ad ascoltare.

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