Primo piano

Siria: un nuovo capitolo di una vecchia storia

 

di Giuliano Longo

 

Per oltre una settimana, i resoconti di intelligence indicavano  mobilitazioni insolite tra le fazioni islamiste siriane, spingendo gli analisti a fare ipotesi sul loro significato. Molti hanno previsto movimenti limitati per rompere lo status quo  che ha attanaglia la Siria settentrionale da quasi cinque anni, un periodo durante il quale le forze israeliane hanno liberamente colpito obiettivi iraniani o legati all’Iran, indebolendoli.

Tuttavia, ciò che è accaduto è andato ben oltre le aspettative, mentre molti commentatori si sono affrettati a inquadrare gli eventi come “prevedibili”non hanno colto che nel giro di 48 ore, le fazioni dell’opposizione (Fath al-Mubin, Ahrar al-Sham ed elementi dell’Esercito nazionale siriano ribelle) hanno invaso vasti territori controllati dal regime e dalle forze iraniane. In sole 24 ore, hanno preso il controllo della seconda città più grande della Siria, Aleppo, annullando in un giorno ciò che le forze di Assad, con il supporto aereo russo, avevano impiegato quattro mesi per realizzare nel 2016.

Come hanno potuto le forze di Assad smantellarsi e ritirarsi così rapidamente? Non è questa un’altra forma di déjà vu, che ricorda il ritiro frettoloso dal Libano nell’estate del 1976?

I calcoli strategici della Turchia

Ma contrariamente al travagliato passato delle vicende siriane, questa volta  la decisione di avviare un’azione militare non è venuta dall’interno della Siria, ma  è stata orchestrata da una potenza straniera. Il ruolo della Turchia nella recente offensiva è innegabile, anche se le opinioni divergono sulla portata del suo coinvolgimento, magari fingendo solo una implicita approvazione di Erdogan.

È difficile immaginare che gruppi jiadisti come Hay’at Tahrir al-Sham e Ahrar al-Sham, che si sono scontrati violentemente in passato, si uniscano volontariamente e coordinino un’operazione così ben eseguita. Questo livello di precisione e collaborazione suggerisce una pianificazione, una guida e una leadership turche, supportate dalle sue capacità di intelligence ben oltre quelle possedute da queste fazioni.

Il coinvolgimento della Turchia è in linea con i suoi obiettivi strategici più ampi: mantenere l’influenza nella Siria settentrionale, contrastare gruppi curdi come lo YPG e consolidare la sua posizione contro Assad e l’Iran.

L’offensiva offre ad Ankara l’opportunità di proteggere il territorio ad Aleppo e Hama, creando le condizioni per rimpatriare decine di migliaia di rifugiati siriani e allo stesso tempo minando le aspirazioni curde all’autonomia.

Rapporti di varie agenzie mediorientali indicano che la Turchia ha unificato le fazioni estremiste sotto l’ombrello dell’Esercito nazionale siriano e di Hay’at Tahrir al-Sham,facilitando operazioni congiunte e coordinamento tattico. Ciò riflette la strategia avanzata di Ankara per raggiungere i suoi obiettivi militari e geopolitici.

Non per il bene della Siria

Come noto  le azioni del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan non sono guidate dall’altruismo verso i poveri  siriani schiacciati dal regime di Assad.

Erdoğan ha trascorso piùdi un anno nel tentativo di riconciliarsi con Assad, mediato dalla Russia, ma i negoziati sono falliti a causa di richieste inconciliabili, tra cui l’insistenza di Assad su un ritiro turco completo.

L’attuale conflitto non fa altro che sottolineare il rifiuto di Ankara di rinunciare al suo punto d’appoggio strategico in Siria.
Gli obiettivi piùampi di Erdoğan includono il rimpatrio dei rifugiati siriani, la limitazione dell’influenza iraniana e l’eliminazione della presenza curda nella Siria nord-orientale.

La cattura di una grande città come Aleppo, insieme alle città circostanti, potrebbe consentire a Erdoğan di reinsediare anche una parte significativa dei tre milioni di rifugiati siriani in Turchia, potenzialmente fino a due terzi.

Il ruolo della Turchia riflette anche il suo calcolato sforzo di controbilanciare l’Iran. Infatti prendendo di mira le milizie sostenute dall’Iran nei pressi di Aleppo e Idlib, Ankara ostacola i centri logistici e strategici di Teheran, indebolendo la sua influenza regionale.

La questione curda

Al centro della strategia della Turchia c’è la questione curda. Ankara vede il PYD e l’SDF curdi come estensioni del PKK, che considera un’organizzazione terroristica. Mentre l’obiettivo finale di Erdoğan potrebbe non essere la caduta di Assad, mentre il suo obiettivo principale rimane lo smantellamento dell’autonomia curda nella Siria nord-orientale.

Questo obiettivo risuona  in particolare nelle regioni settentrionali, dove i sentimenti nazionalisti si allineano con la posizione di Erdoğan contro l’autogoverno curdo. Tuttavia, tali alleanze tra sciovinisti turchi e arabi mettono a repentaglio i principi dell’unità siriana e dei diritti umani.

Nonostante le critiche all’Amministrazione autonoma della Siria settentrionale e orientale, questa ha stabilito un modello di governancepiù inclusivo e progressista alla comunità curda  che con  Assad o Erdoğan, a  in quanto cittadini siriani, merita diritti e protezioni, mentre trattarli come estranei mina gli ideali stessi della originaria rivoluzione siriana.

Il pericoloso “gioco” fra Turchia, Israele, la Russia e l’Iran

Nel caos attuale il rimpasto delle alleanze e l’indebolimento delle potenze tradizionali (Russia, Iran, Hezbollah e Assad)potrebbero aprire la strada a una soluzione globale in Siria?

Significativo è il fatto che molta stampa anche italiana, plauda all’apertura di un secondo fronteper Mosca impegolata nel quasi triennale conflitto ucraino, ma sottovaluta l’inevitabile liason organica con Teheran che su quella guerra aveva sinora mantenuto, se non un atteggiamento neutrale quantomeno organico. Salvo fornire a Putin armamentifra cui sciami di efficienti droni.

Quindi l’irresponsabile vision di un secondo fronte, sicuramente gradito alla amministrazione Biden, non è detto che coincida con gli interessi di Israele che dalla caduta del governo di Assad – che tutto sommato ha garantito un certo equilibrio per decenni nell’area del Medio Oriente –  non garantirebbe a Tel Aviv quella sicurezza ed espansione dei confini che è negli obiettivi dichiarati di Netanyahu a prezzo della risoluzione del problema palestinese a qualsiasi prezzo di sangue.

Ma soprattutto spingerebbe la potenza militare di Teheran nelle braccia di Putin con la costruzione di un blocco militare di rilevante potenza in tutta l’area mediorientale che sino ad oggi era più di fatto che una scelta politica dichiarata.

Non solo, ma priverebbe Israele, ferocemente avversata da Erdogan, almeno a parole, del cauto ruolo di mediazione sinora sommessamente garantito da Mosca.

Se queto è il risultato, i calcoli di Ankara potrebbero schiantarsi contro le promesse dichiarate di Trump per un armistizio, se non la pace, in Ucraina,  tirando (forse) Putin fuori dal buco ucraino e consentendogli di rafforzare la propria presenza in Siria.

Nel frattempo, dallo Yemen all’Iraq, la chiamata alle armi di Teheran sarebbe inevitabile con un allargamento del conflitto che lo stesso Biden aveva tentato di evitare. Al momento la sola pericolosa certezza è che l’operazione Aleppo non si concluderà tanto rapidamente con l’inevitabile prezzo  che pagheranno siriani e curdi.

Aggiornamento la crisi mediorientale ore 11.33

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