Cultura, Arte e Libri

Antigone, da Sofocle a Liliana Cavani. Le riflessioni di Otello Lupacchini

di Otello Lupacchini

 

Correva l’anno 1970, quando, ancora pargolo pieno d’ambizioni, assistetti alla proiezione de I Cannibali, film di Liliana Cavani (nella foto) che meglio sia de I pugni in tasca, firmato nel 1965 da Marco Bellocchio, sia di Marcia nuziale di Marco Ferreri, approdato nelle sale nel 1966, riflette il momento, in cui, negli anni Sessanta, la rivolta giovanile, fattasi sociale, si rivolgeva contro i padri, senza tuttavia rimanere chiusa nella famiglia, essendosi l’accusa estesa ben presto all’intero ordine sociale, assumendo tonalità globali, ideologiche e politiche: erano anche gli anni di Easy Ridere di Fragole e sangue.

La vicenda narrata nel lungometraggio della cineasta carpigiana si svolge in una metropoli laboriosa e ordinata, ingombra, però, dei cadaveri dei giovani di una qualche rivoluzione fallita, scavalcati dalla folla, che silenziosa, indifferente, civilmente affaccendata, sembra quasi non vedere quei corpi. L’ordine è, infatti, di non toccarli, perché servissero da esempio. La protagonista del racconto, figlia di borghesi benestanti e fedeli al regime, intenzionata a dare sepoltura al fratello, viene ben presto  catturata dalla polizia, messa sulle sue tracce proprio dagli stessi familiari. Soltanto il fidanzato della giovane donna, figlio del primo ministro, tenta inutilmente d’intercedere, accusando il padre d’assassinio. Tragico l’epilogo: mentre la protagonista finisce uccisa, il fidanzato, rinchiuso in manicomio, si degrada a livello animalesco.

Affatto evidente che si  trattasse di una rilettura in chiave contemporanea della tragedia Antigonedi Sofocle. Nel testo del teatro greco, dei quattro figli di Edipo e Giocasta, i due maschi, Eteocle e Polinice, si uccidono a vicenda in una guerra civile; il cadavere di Polinice, giace insepolto fuori dalle mura di Tebe, perché resosi  colpevole di aver marciato con un esercito contro la città, essendo stato escluso dal trono della stessa, nonostante l’accordo fissante un’alternanza tra lui e il fratello; a Eteocle, per contro, è stata concessa sepoltura; per Antigone la situazione è intollerabile, sia perché suonante offesa al corpo di Polinice, ma soprattutto perché in violazione della giustizia divina, da lei sentita e custodita, tale, dunque, da imporre la sepoltura dei propri familiari; eccola, dunque, disubbidire per due volte, recandosi nottetempo a ricoprire i resti del fratello, ma scoperta e denunciata, ineluttabile la sua condanna, da parte di Creonte, a una pena durissima: essere rinchiusa in una caverna e lasciata morire; la fanciulla rivendica il proprio atto e accetta la condanna, ma una volta rinchiusa si uccide; alla notizia della sua morte si uccide anche il suo promesso sposo, Emone, figlio dello stesso Creonte e di Euridice. L’attualizzazione, nell’opera cinematografica, della trama della tragedia ha comportato significative modifiche al testo di riferimento, che muovono verso altre direzioni e tali da cambiare radicalmente la valenza stessa del gesto della protagonista. In particolare, l’Antigone de I cannibali non è la figlia di Edipo e Giocasta o, almeno, non lo è nella valenza drammatica in cui lo è esserlo nella tragedia sofoclea, dove il rapporto incestuoso tra madre e figlio ha dato origine a una discendenza “macchiata” dalla colpa del padre; non è, dunque, sorella di Polinice nella “mostruosa” maniera del mito greco, eliminando quindi del tutto le problematiche legate ai rapporti di parentela, fondative e fondanti del testo tragico; inoltre, le motivazioni del gesto della protagonista del film, i cui genitori sono ancora vivi, si allontanano completamente da quelle del suo corrispettivo letterario: l’Antigone del racconto cinematografico non compie il rito della sepoltura per aderire a leggi divine o perché, morti i genitori, non potrebbe più nascere un altro fratello, come affema, invece, l’Antigone sofoclea alla fine della tragedia, ma lo compie perché per lei è naturale, così come è naturale reiterare il gesto; ecco perché l’Antigone del film non si pone nemmeno il problema delle ripercussioni delle sue azioni e non ricerca ossessivamente la morte, in quanto figlia di generazioni corrotte che possono trovare risoluzione solo nella fine della propria vita.

Analogo discorso vale per Creonte, che nel film diviene un anonimo Primo Ministro, ben lontano dal tiranno della tragedia, il quale rappresenta la legge di Stato che si contrappone a quella morale; non lascia insepolti i ribelli poiché ritenuti traditori, ma per fare dei loro corpi dei simboli del proprio potere, moniti fisici di una politica non in grado di mantenere fino in fondo l’ordine costituito; il coro, peraltro, rappresentazione viva, nella tragedia, della voce del popolo, unico “corpo” in grado di parlare al sovrano in maniera diretta, consigliandolo o mettendolo in guardia, diviene invece nel film un insieme di corpi morti, meno scomodi e più incisivi; e se a suo figlio, nella pellicola, viene tolta la possibilità di redimersi nella morte, a lui non viene concessa nemmeno la possibilità di un pentimento, laddove nel testo sofocleo decide di provare a salvare Antigone, spinto dal coro e da Tiresia, che lo mettono in guardia dalla furia delle Erinni.

A causa del cambio di prospettiva operato da Liliana Cavani, persi inizialmente di vista il senso autentico del testo letterario di riferimento. “Innamorato” dell’Antigone cinematografica, complice magari la convincente interpretazione del personaggio offerta dalla splendida attrice svedese Britt Ekland, ma anche intrigato dal tronfio e altero, ombroso, suscettibile e  sospettoso Primo Ministro/Creonte, personaggio dal comportamento tracotante, interpretato da Francesco Leonetti, che si pavoneggia, si ascolta, si ammira, senza mai ammettere i suoi torti, esibendo piuttosto i gravi difetti del suo carattere, quali l’orgoglio smisurato, l’arroganza, il comportamento tracotante, avevo fnito per non cogliere il significato metaforico del contrasto fra i due personaggi. Poco male:avrei avuto ben presto occasione di porre rimedio alla superficialità del mio originario approccio interpretativo all’ Antigonesofoclea.

Pur non essendo il tragediografo greco un filosofo e quantunque ai suoi versi non debba attribuirsi valore che non sia poetico, in essi la forza della poesia ha, però, raffigurato meglio che in qualsiasi trattazione filosofica uno dei problemi fondamentali della filosofia del diritto, tanto da parlarsene nelle aule universitarie, per le parole di Antigone, la quale, condotta al cospetto del re, che le chiede se abbia osato trasgredire le sue leggi, risponde: “Sì; perché certo non è stato Zeus ad emanare questo editto; e la Giustizia, che dimora con gli dèi sotterranei, non ha mai stabilito per gli uomini leggi simili. Ed io non ritenevo che i tuoi bandi avessero tanta forza che un mortale potesse soverchiare le leggi non scritte (àgrapta nómina) ed incrollabili degli dèi. Perché queste non vivono oggi o ieri, ma in eterno, e nessuno conosce il momento in cui ebbero origine” (vv. 450-457). Nei primi anni Settanta dello scorso secolo, infatti ci s’interrogava ancora sull’esistenza di leggi “naturali” anteriori e superiori a quelle poste dallo Stato; ci si chiedeva ancora, almeno tra i giuristi degni di tale nome, se l’uomo possieda “per natura” diritti che le leggi dello Stato debbano rispettare; e quali siano queste leggi e questi diritti “naturali”; se, là dove esistenti e conoscibili con certezza, siano immutabili o varino col tempo; se sia lecito e doveroso disobbedire alle leggi contrastanti col diritto “naturale”; se i giudici debbano applicare la legge dello Stato quando questa appaia loro ingiusta. Era viva, insomma, la consapevolezza che non per caso, nella nostra Costituzione, si facesse carico alla Repubblica di “riconosce(re) e garanti(re) i diritti inviolabili dell’uomo” (art. 2): gli anni che avevano preceduto l’emanazione della legge fondamentale avevano veduto legislazioni positive, dunque legalissime, cioè affatto conformi all’ordinamento dello Stato che le aveva emanate, le quali privavano i cittadini di molti importanti diritti o che li limitavano grandemente, cominciando da quello che tutti li riassume: il diritto di libertà.

Da allora tanta acqua è passata sotto i ponti. La figura di colei che racchiudeva in sé ogni virtù, di colei che rappresentava un modello insuperato di chi si oppone a un regime tirannico, di chi reagisce di fronte ai diritti calpestati e negati, di ogni donna in lotta contro il potere maschile, per la sua determinazione a dare sepoltura al fratello Polinice, violando la legge cittadina per obbedire a una legge non scritta, è sembrata non corrispondere più al personaggio cui Sofocle ha dedicato l’omonima tragedia oltre 2500 anni. Là dove, purtroppo, oggi più che quella di Antigone a intrigare è la figura di Creonte, di cui balzano evidenti i grandi difetti di carattere: orgoglio smisurato, arroganza, comportamento tracotante. Tronfio e altero, si pavoneggia, si ascolta, si ammira, non ammette né i suoi torti né i suoi difetti. E poiché vanità e diffidenza vanno di pari passo, è ombroso, suscettibile, sospettoso. Dietro la maschera autoritaria e grossolana, sotto l’altezzosità rabbiosa, carica di beffardo cinismo, di Creonte, si nasconde, però, un inconscio sentimento d’inferiorità che lo domina lungo tutto l’arco della tragica vicenda. Ed è in questo motivo profondo e occulto che si rinvengono le radici delle forme esasperate del suo comportamento, di quel suo orgasmo, della sua smania, della sua febbre inesausta di vendetta. Il suo dramma è appunto il dramma di questo sentimento e dei suoi sforzi per superarlo. Egli è, in fondo, un debole che diventa autoritario ed assume l’aria di forte per difendersi dalla propria debolezza.

Ebbi a sostenere questa tesi eterodossa, per vero un tantino isolato, già alcuni anni or sono, oggi essa è confortata da una grecista dell’autorevolezza di Eva Cantarella (Contro Antigone, ), la quale, esplorando la distanza tra mito e personaggio, mette in luce lati sorprendentemente negativi dell’eroina da tutti osannata, arrivando a contestare il ruolo di despota attribuito a Creonte, protagonista di una drammatica vicenda umana e politica che lo rende una figura non meno interessante e non meno tragica.

 

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