Primo piano

Riflessioni di un vecchio signore d’altri tempi sulla trattativa Stato-Mafia (2)

di Otello Lupacchini*

Già a questo livello è apprezzabile la faziosa inconsistenza delle critiche mosse alla Corte d’assise d’appello di Palermo dai Di Matteo e dagli Scarpinato, là dove ripropongono la solita narrazione molto suggestiva, ma tutta da verificare, come dicevo all’inizio, alla stregua delle motivazioni della sentenza, per poter escludere, con cognizione di causa, se quella storytellingveicoli acriticamente le tesi dell’accusa, con effetto disorientante sui cittadini. Diverso, naturalmente, sarebbe se anziché all’ideologia i critici tentassero di verificare se anziché sulla mancanza di dolo non sarebbe stato più corretto, da parte della Corte d’assise d’appello palermitana, operare il rovesciamento delle conclusioni del giudice di primo grado affrontando la questione giuridica fondamentale, se cioè ricorressero, nei fatti dedotti in imputazione gli elementi di fattispecie del reato previsto e punito dall’articolo 338 del codice penale. Questione fondamentale, posta sin dall’inizio delle indagini, allorché vi fu chi non mancò di evidenziare che «la prospettazione di quest’ipotesi criminosa (era) frutto di una escogitazione a posteriorie in via residuale, nel senso che essa (era) sembrata apparire ai pubblici ministeri l’unico ancoraggio per conferire una veste delittuosa ad alcuni segmenti di una vicenda molto articolata e complessa, ma irriducibile a qualificazioni penalistiche sicure ed univoche alla stregua di paradigmi di incriminazione meno eccentrici rispetto a quello infine escogitato» (v. G. Fiandaca, La Trattativa Stato-Mafia, tra processo politico e processo penale, in «Criminalia» 2012, pp. 67-93). Il fatto, del resto, che quella fondamentale questione fosse stata elusa dal primo giudice e che piuttosto che affrontarla il giudice d’appello abbia preferito rifugiarsi nella mancanza di dolo nell’opusdei Carabinieri imputati, suona ammissione che per dare legittimazione giuridica al preconcetto della sostanziale illiceità della trattativa, una qualche figura di reato cui ancorarsi doveva essere rinvenuta ad ogni costo, e dunque anche al prezzo di possibili forzature; o, detto altrimenti, che ci si trovi di fronte a un’imputazione strumentale a obiettivi di pregiudiziale incriminazione, per come del resto appare comprovato da una rigorosa comparazione tra l’impostazione accusatoria e le argomentazioni sottostanti.

A queste premesse d’ordine eminentemente teorico, infatti, deve affiancarsene una di carattere fattuale: «madre» dell’inchiesta  sulla cosiddetta «Trattativa Stato-Mafia» è quella denominata «Sistemi criminali», svolta sempre dalla Procura di Palermo a fine anni Novanta, nella quale  i magistrati avevano ritenuto d’individuare una triade di realtà diverse, alleatesi per cercare di sovvertire l’ordine del nostro Paese, frantumandolo sul modello jugoslavo, da un lato, attraverso la strategia delle bombe e delle stragi, dall’altro, creando le Leghe del Sud. La prima di queste realtà sovversive sarebbe stata un’inedita alleanza tra Cosa nostra e le altre mafie nazionali; mentre le altre due sarebbero state la massoneria piduista, inzeppata di elementi della destra eversiva italiana, e l’insieme di uomini e strutture dell’Antistato, interni alle istituzioni del nostro Paese. Obiettivo dell’asserita triade, peraltro, sarebbe stato l’azzeramento dei referenti politici nelle istituzioni, ormai ritenuti inaffidabili, così da intervenire direttamente nel governo della società, così da «farsi Stato», come spiegato dal collaboratore di giustizia Leonardo Messina, allorché aveva preteso di spiegare la genesi della stagione delle trattative. Qualcosa, insomma, di assai più complesso che non la semplice «Trattativa Stato-Mafia»: secondo quell’inchiesta, l’ideazione e la regia del piano eversivo non sarebbero stati di Cosa nostra, che anzi appariva piuttosto la struttura esecutiva, il «braccio armato» degli eversori. Basta scorrere, del resto, l’elenco degli indagati dell’epoca per capire che i promotori del «nuovo ordine» sarebbero stati quanto di più eterogeneo e inquietante offrisse l’Italia nel 1991: dai fascisti del calibro di Stefano Delle Chiaie e Stefano Menicacci; ai massoni come Licio Gelli, fino agli importanti esponenti delle famiglie di ‘ndrangheta e ai massimi vertici di Cosa nostra. In quell’inchiesta si ritenne, in particolare, fosse stato accertato, innanzi tutto, che «All’inizio degli anni ’90 (sarebbe stato) elaborato, in ambienti esterni alle organizzazioni mafiose ma a esse legati, un nuovo “progetto politico”, attribuibile ad ambienti della massoneria e della destra eversiva»; progetto, in secondo luogo, che avrebbe perseguito una strategia secessionista; e, finalmente, che Cosa nostra avrebbe avviato una vera e propria «strategia della tensione stragista». Quella pericolosa alleanza, tuttavia, come sostenuto dal collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, sembrava essersi arenata, tra il 1991 e il 1992, non essendo Salvatore Riina entusiasta di questi «nuovi soggetti». Da quel momento, coincidente con l’omicidio di Salvo Lima, sarebbe iniziata la «trattativa» nella quale la Procura palermitana volle vedere coinvolti Marcello Dell’Utri e i nominati ufficiali del Ros dei Carabinieri.

2-segue

*Giusfilosofo

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