dI Viola Scipioni
«Martina aveva solo 14 anni. Aveva la vita davanti, i sogni, le amicizie, la scuola. Le è stata tolta con una violenza che lascia senza fiato». Con queste parole, affidate a un post su X, la Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha commentato l’ennesimo caso di femminicidio che ha scosso l’opinione pubblica: la morte brutale di Martina Carbonaro, uccisa ad Afragola dell’ex fidanzato.
La premier ha definito il delitto «spietato, che colpisce nel profondo ogni genitore, ogni cittadino, ogni essere umano», e ha sottolineato come la morte della ragazza imponga alla società di «guardare in faccia un male profondo, che non possiamo né ignorare né normalizzare: la violenza cieca e possessiva che troppo spesso si abbatte sulle donne, anche sulle più giovani».
Meloni ha poi riconosciuto che, nonostante i molti provvedimenti già adottati, tra cui la riforma del “codice rosso”, «le norme non saranno mai sufficienti se non daremo vita a una profonda svolta culturale e sociale». E ha concluso con un appello collettivo: «dobbiamo fare di più, tutti insieme. Per Martina. Per tutte».
Le parole della premier arrivano mentre è in discussione una nuova proposta del governo: l’introduzione del reato autonomo di femminicidio. Una misura pensata per rafforzare la risposta dello Stato di fronte a una piaga ormai strutturale, che nel 2025 continua a mietere vittime a cadenza quasi settimanale.
Ma non tutti vedono in questa iniziativa un passo avanti concreto. Al contrario, 80 giuriste italiane hanno sottoscritto un appello contro il disegno di legge, ritenendolo inefficace e meramente simbolico. Tra loro, la professoressa Ilaria Merenda, docente di Diritto Penale all’Università Roma Tre, che al quotidiano Il Foglio ha dichiarato: «il nostro ordinamento già prevede l’ergastolo per chi uccide una donna. Siamo di fronte all’ennesimo uso simbolico del diritto penale, a un’operazione di marketing senza alcuna efficacia concreta».
Secondo Merenda, introdurre un reato specifico per il femminicidio non è solo inutile sul piano normativo, ma rischia di oscurare le vere priorità: «la nostra preoccupazione è che questo intervento sposti l’attenzione sui veri ambiti nei quali il legislatore dovrebbe intervenire, che riguardano soprattutto la formazione e la prevenzione».
Nel documento firmato dalle giuriste si evidenzia inoltre la scarsa capacità deterrente di pene severe come l’ergastolo: «un soggetto che arriva a commettere un reato così grave difficilmente può essere disincentivato dalla minaccia della pena. Parliamo di reati che nascono da dinamiche affettive e culturali molto profonde», ha spiegato Merenda.
L’appello non nega l’urgenza del problema, ma contesta l’efficacia del metodo scelto: «Questa misura è una sorta di ansiolitico sociale: la collettività ha l’impressione che il governo si stia occupando di questo fenomeno, ma non è così. Il ddl non prevede alcun investimento finanziario per i centri antiviolenza o per programmi educativi».
Le critiche si estendono anche al piano tecnico-giuridico. «Il reato proposto è discutibile sotto il profilo della determinatezza penale», sostengono le firmatarie. E ammoniscono: «una società che delega al diritto penale l’educazione dei propri cittadini è una società che ha fallito».
Il femminicidio di Martina Carbonaro, come quello di Giulia Cecchettin e tante altre, riaccende il dibattito su cosa sia davvero necessario per fermare la violenza sulle donne. Se la risposta debba essere penale o culturale, repressiva o educativa. Ma una certezza, in mezzo a numeri e norme, resta scolpita nelle parole della premier: «Martina non c’è più. E questo deve interrogarci tutti».