di Michele Rutigliano
Il pacifismo è un valore profondamente radicato nella cultura occidentale. Dopo le tragedie del Novecento, l’Europa ha fatto della pace la propria bandiera, cercando di costruire un ordine fondato sul dialogo e sul diritto internazionale. Tuttavia, il ritorno della guerra nel continente, con l’invasione russa dell’Ucraina, ha messo in discussione molte certezze, facendo emergere contraddizioni e debolezze nel pacifismo contemporaneo. Di fronte a un’aggressione brutale, ci si interroga su quanto sia realistico limitarsi a invocare il cessate il fuoco senza affrontare la necessità della difesa. La richiesta di disarmo e di riduzione delle spese militari, per esempio, rischia di suonare ingenua quando un regime imperialista come quello di Putin minaccia la sicurezza europea. È giusto, in nome della pace, negare ai Paesi aggrediti gli strumenti per difendersi? Oppure questa posizione, per quanto animata da buone intenzioni, finisce per tradursi in un’implicita complicità con l’aggressore? Molti movimenti pacifisti si sono opposti alla fornitura di armi all’Ucraina, sostenendo che una maggiore militarizzazione renda più difficile una soluzione negoziata. Ma questa visione ignora un dato di fatto: in guerra, chi è più debole non tratta da pari, ma è costretto ad accettare le condizioni imposte dal più forte. Se l’Ucraina non avesse ricevuto aiuti militari, oggi sarebbe probabilmente sotto il completo controllo russo.
Le critiche al pacifismo
In questo contesto, si fanno sempre più evidenti le contraddizioni di un pacifismo che non tiene conto della realtà geopolitica. Si può davvero pensare che la pace si costruisca senza strumenti di deterrenza? E, soprattutto, che l’Europa possa affidare la propria sicurezza esclusivamente agli Stati Uniti, rimanendo inerme di fronte alle minacce esterne? Il problema è che il pacifismo occidentale sembra oscillare tra idealismo e pragmatismo senza trovare un equilibrio. Da un lato, chi invoca la pace a ogni costo rischia di apparire distante dalle reali esigenze di sicurezza dei Paesi più esposti alla minaccia russa. Dall’altro, chi sostiene il rafforzamento militare viene spesso accusato di alimentare il conflitto, in un dibattito sempre più polarizzato. Questa divisione non è nuova nella storia. Il pacifismo è stato spesso stigmatizzato come una posizione ingenua o addirittura pericolosa. Durante la Prima e la Seconda guerra mondiale, chi si opponeva alla mobilitazione veniva accusato di codardia o di tradimento. Durante la Guerra Fredda, chi promuoveva il dialogo con l’Unione Sovietica era sospettato di simpatie comuniste. Oggi, chi chiede un compromesso con Mosca rischia di essere etichettato come “filo-Putin”. Ma ridurre il pacifismo a un’ingenuità o a una forma di viltà sarebbe un errore. La pace non è solo assenza di guerra, ma il risultato di un equilibrio complesso tra forze politiche, economiche e sociali. È giusto cercare soluzioni diplomatiche e rifiutare la logica della guerra permanente, ma è altrettanto giusto riconoscere che, in alcuni casi, la difesa armata è l’unico strumento per proteggere i valori della libertà e della democrazia.
Il dilemma europeo
Di fronte a queste sfide, l’Europa deve decidere quale ruolo vuole giocare nel mondo. Affidarsi esclusivamente alla protezione americana non è più una strada percorribile, soprattutto in un momento in cui la politica estera di Washington diventa sempre più imprevedibile. Per questo, è necessario un rafforzamento della difesa comune, unito a una politica estera autonoma, capace di mediare nei conflitti senza essere subordinata agli interessi di altre potenze. Allo stesso tempo, l’Europa deve mantenere la sua coerenza etica, difendendo i diritti umani e denunciando le violazioni ovunque avvengano. La pace non può essere solo uno slogan, ma un obiettivo da perseguire con pragmatismo, costruendo un equilibrio tra diplomazia e deterrenza. Solo così si potrà superare l’impasse tra pacifismo ideologico e realismo cinico, ritrovando una politica estera capace di affrontare le sfide del nostro tempo.